Un nuovo ritrovamento in Etiopia porta indietro di mezzo milione di anni la comparsa del genere Homo, e assieme ad altri studi riscrive la storia delle nostre origini.
Due mascelle fossili gettano nuova luce su uno dei più fitti misteri dell’evoluzione umana: la comparsa del genere Homo. I due fossili – uno rinvenuto di recente in Etiopia, l’altro un esemplare rinvenuto mezzo secolo fa e ora ricostruito – indicano l’Africa orientale come culla della nostra linea evolutiva.
Il nuovo fossile etiopico, descritto in uno studio appena pubblicato online da Science, porta indietro nel tempo di almeno mezzo milione di anni – a 2, 8 milioni di anni fa – la comparsa del genere a cui apparteniamo. È una datazione che desta sorpresa in quanto differisce di poco da quella (circa 3 milioni di anni fa) dell’ultima presenza documentata di Australopithecus afarensis, il bipede noto soprattutto per il celebre fossile di nome Lucy, che secondo molti studiosi è un antenato diretto del genere Homo. La nuova mandibola, chiamata LD 350-1, è stata scoperta nel gennaio 2013 ad appena una ventina di chilometri dal sito in cui nel 1974 venne rivenuta Lucy.
“È una notizia entusiasmante”, ha commentato Donald Johanson, lo scopritore del celebre fossile.
La regione degli Afar, parte della Rift Valley dell’Africa Orientale, ha restituito molti preziosi fossili di ominidi, tra cui una mascella di Homo datata 2, 3 milioni di anni fa e chiamata AL 666-1, che finora era ritenuta la testimonianza fossile più antica del genere cui apparteniamo.
I fossili attribuiti al genere Homo risalenti al periodo compreso tra due e tre milioni di anni fa sono estremamente rari. “Si possono mettere tutti un una scatola da scarpe e rimane ancora spazio per un bel paio di calzature”, disse una volta Bill Kimbel, direttore dell’Institute of Human Origins della Arizona State University, il quale nel1994 scoprì AL 666-1 e che di recente ha partecipato alle analisi del nuovo reperto.
Tra le caratteristiche che collocano il nuovo fossile in quella scatola ci sono un molare affusolato, una particolare disposizione delle cuspidi dentarie e la forma del corpo osseo della mandibola, tutti tratti tipici del genere Homo. Ma la parte anteriore della mandibola presenta una morfologia più primitiva, ossia un mento poco sviluppato caratteristico di A. afarensis.
“Ciò restringe lo spazio temporale in cui concentrare ora le nostre ricerche sulla comparsa della linea evolutiva umana”, dice Kimbel. “Quella che abbiamo davanti è una forma transizionale, esattamente ciò che ci si aspetterebbe in un fossile di quell’età. Il mento guarda al passato; ma la forma dei denti guarda al futuro”.
L’ultimo ritrovamento inoltre sembra smentire la teoria, sostenuta da altri ricercatori, che il diretto antenato del nostro genere sia un australopiteco sudafricano, Australopithecus sediba. Gli autori della ricerca di Science sottolineano infatti che l’unico esemplare fossile noto della specie ha circa un milione di anni in meno della mandibola fossile trovata in Etiopia a cui avrebbe dovuto dare origine.
Il luogo dove è stata ritrovata la nuova mandibola fossile, chiamato Ledi-Geraru, 2,8 milioni di anni fa ospitava un paesaggio misto di praterie e arbusti molto simile all’attuale Serengeti, afferma uno studio correlato condotto da Erin DiMaggio e altri ricercatori della Penn State University. Le specie animali presenti all’epoca del fossile suggeriscono un ambiente che stava diventando più aperto e arido, il che suggerirebbe l’ipotesi di un cambiamento climatico che avrebbe innescato un adattamento evolutivo in molte forme animali. Nonostante questo però, dice Kaye Reed, direttore del progetto Ledi-Geraru all’Institute of Human Origins, “è comunque troppo presto per affermare che l’origine del genere Homo sia stata causata da un cambiamento climatico”.
La mandibola etiopica basterebbe a giustificare l’entusiasmo dei paleoantropologi, ma la sua importanza è in qualche modo amplificata dalla nuova ricostruzione di un fossile di Homo che ha un milione di anni di meno, presentata in uno studio appena pubblicato dalla rivista Nature.
La mascella fossile è attribuita alla specie Homo habilis, così battezzata nel 1964 dagli scopritori Louis e Mary Leakey perché il reperto fu rinvenuto nella Gola di Olduvai, in Tanzania, un uno strato di sedimenti che conteneva anche i più antichi strumenti litici mai ritrovati fino ad allora. (In seguito in Etiopia sono stati rinvenuti strumenti più antichi, risalenti ad almeno 2, 6 milioni di anni fa).
Louis Leakey e colleghi affermarono che H. habilis era con ogni probabilità l’antenato di tutte le specie successive del genere Homo, compresa Homo sapiens. Da allora H. habilis è rimasto appollaiato sul quel ramo dell’albero evolutivo umano, pur se in maniera abbastanza precaria anche a causa della frammentarietà dell’esemplare fossile che lo rappresentava: una mandibola fortemente distorta, vari pezzetti del cranio e di una mano.
Grazie alla TAC e a un avanzato sistema di imaging 3-D, un team guidato da Fred Spoor dell’University College di Londra e dell’Istituto di Antrolopogia Evolutiva Max Planck, in Germania, ha ricostruito digitalmente l’aspetto originario di quella mandibola. La sua forma allungata, con file di denti paralleli l’uno all’altro ricorda le australopitecine, antenati dell’uomo che precedono la comparsa del genere Homo.
Una nuova ricostruzione di questo cranio fossile di Homo Habilis, chiamato Olduvai Hominid 7, mostra una combinazione di tratti primitivi e altri più moderni, tra cui un cervello più grosso di quanto si pensasse in precedenza, segno che le varie specie di Homo potrebbero aver avuto un antenato comune già dotato di un cervello notevole. Fotografia di John Reader
Benché abbia mezzo milione di anni in meno della mascella AL 666-1, la mandibola appena ricostruita è più primitiva. Ciò fa ipotizzare l’esistenza di una linea evolutiva “fantasma” del genere Homo ben precedente a 2, 3 milioni di anni fa, e che avrebbe dato origine a entrambe le discendenze.
E – rullo di tamburi – la nuova mandibola etiopica calza a pennello con questa ipotesi.
La mandibola di Ledi-Geraru, secondo Spoor, è arrivata come il cacio sui maccheroni a suggerire un plausibile legame evolutivo tra Australopithecus afarensis e Homo habilis.
Ma non è tutto. Spoor e colleghi hanno ricostruito digitalmente anche la scatola cranica del primo esemplare di H. habilis, la cui capienza cerebrale era stata stimata in precedenza attorno ai 700 centimetri cubici: più delle australopitecine, ma meno delle specie umane successive. Le loro analisi portano invece il volume a 800 centimetri cubici, il che pone H. habilis allo stesso livello di altre due specie di Homo che abitavano le savane dell’Africa orientale due milioni di anni fa, e cioè Homo rudolfensis e i primi Homo erectus.
“Quello che abbiamo di fronte è un animale con un muso molto primitivo, ma con un cervello grande”, ha detto Spoor presentando la nuova ricostruzione del fossile al Turkana Basin Institute in Kenya lo scorso agosto.
È assai improbabile che le tre specie coeve Homo habilis, H. rudolfensis e H. erectus abbiano evoluto un cervello grande in maniera indipendente, quindi si presume che il loro antenato comune viaggiasse già in quella direzione, e prima di quanto di pensasse finora. Se così fosse si ristabilirebbe il collegamento tra la comparsa di un cervello più grande negli ominidi e i primi strumenti in pietra.
Fonte: http://www.nationalgeographic.it, 8 marzo 2015