La difficoltà maggiore nello studio delle produzioni vascolari arcaiche della Magna Grecia è dovuta principalmente alla grande varietà di fabbriche coloniali e alle molte importazioni provenienti soprattutto, per l’arco cronologico che interessa questo contributo del VII sec. a .C. , da Corinto dall’Attica e, in misura un po’ minore, dalle Cicladi e dalla Ionia.
Il cratere di Aristonothos, datato intorno al 650 a. C. , fu rinvenuto nella cittadina etrusca di Caere ed è attualmente conservato al Museo dei Conservatori di Roma. La superficie del vaso è coperta da un’ingubbiatura chiara all’esterno e all’interno, decorata con vernice bruno nerastra con ritocchi bianchi, su entrambi i lati principali trovano posto due raffigurazioni interdipendenti ma di grande fascino ed interesse espressivo.
La faccia principale riporta infatti, per la prima volta nell’occidente magno greco, il ben noto soggetto mitologico dell’accecamento del ciclope Polifemo da parte di Ulisse e dei suoi compagni. Le figure sono posizionate in una postura rigida, con le spalle ed il busto leggermente sporto in avanti, le braccia e le mani sono impegnate nel brandire e direzionare l’esile tronco nell’unico occhio del terribile gigante che, contrariamente al racconto dell’Odissea, non è rappresentato steso ma seduto, e possiede proporzioni del corpo assolutamente “umane”, della stessa grandezza dei mortali guerrieri greci. Non vi è differenza iconografica tra Odisseo e i suoi compagni, quasi come se l’intenzione visiva dell’artista fosse stata quella di porre tutti gli sventurati guerrieri itacesi sullo stesso piano emotivo, sotto l’implacabile volontà equanime delle moire. La composizione è chiara, lineare. In essa si pone l’attenzione su Polifemo, che cerca di allontanare dal suo unico occhio il palo, e su Ulisse che, con movimento vivace, puntando il piede contro la cornice del riquadro pittorico, spinge il palo con forza per portare a compimento il suo astuto piano.
La nota più interessante di questa raffigurazione è di sicuro il parallelo che si può istituire con un’altra celebre rappresentazione del mito su un prodotto vascolare inerente alla cultura artistica protoattica. Da Eleusi proviene la celebre anfora di Polifemo (interpretata come sema tombale), datata alla metà del VII sec. a. C. , che reca sul collo il medesimo tema espressivo del cratere di Caere. Le figure nel caso dell’anfora attica presentano però una silhouette più slanciata e dinamica con notazioni muscolari più armoniose e possenti. Ulisse si staglia netto rispetto gli altri compagni per la sagoma del corpo campita di bianco, il mostruoso ciclope, figlio di Zeus (rappresentato anche in questo caso seduto!), mostra un corpo proporzionalmente più grosso, minaccioso anche se inerme. In questo caso si percepisce tutto lo sgomento provocato dalla sinistra figura mangiatrice di uomini.
Questa particolare notazione psicologica è del tutto assente nel nostro cratere, anzi, la fissità espressiva dei personaggi denota una scarsa attenzione per i particolari da parte del ceramografo. L’artista produttore firmò la propria opera con il nome Aristonothos (Aristonothos epoiesen), continuando così una tradizione che in Magna Grecia è attestata, allo stato attuale della ricerca, almeno dall’ultimo quarto dell’VIII sec. a. C. , dal frammento di cratere tardo geometrico proveniente da Lacco Ameno ad Ischia e conservato nel locale Museo Archeologico.
La scena dipinta sull’altra faccia, una battaglia navale tra due vascelli affrontati, è per alcuni (Banti 1958, p. 653) di qualità inferiore rispetto all’altisonante composizione di sapore mitico tratta dall’Odissea. In realtà si ravvisa nella raffigurazione “secondaria” una sintassi espressiva quasi bozzettistica, con gli armati dipinti con gambe scarne, fin troppo esili, e scudi che coprono l’intero corpo lasciando intravedere solo parte della faccia, togliendo così al pittore il problema della resa del corpo di tre quarti. L’escamotage degli scudi dei guerrieri in azione non serve però solo a semplificare la scena bellica ma, a nostro avviso, soprattutto a seguire l’andamento sinuoso e compatto del profilo dello scafo di destra. L’intento di Aristonothos sarebbe stato quindi quello di realizzare una scena nella quale soldati e nave da battaglia si allineassero sotto lo stesso asse visivo in modo da rendere tutta la rappresentazione pittorica più unitaria e soprattutto più compatta per dare un senso maggiore di imminenza allo scontro che di lì a poco sarebbe andato in scena. La forma pittorica diviene quindi più vivace e mossa, ricca di motivi curvilinei, nella quale si intuisce una resa meno convenzionale, più consona alla realtà dei tempi. L’epoca dell’atavica paura verso l’ignoto mondo marino iniziava lentamente a scemare; se si ripensa alla raffigurazione di naufragio dipinta sul noto cratere tardogeometrico ischitano (datato alla fine dell’VIII a. C.) non si può far altro che rimanere ammirati dai notevoli progressi spirituali ed artistici compiuti in appena tre quarti di secolo dagli uomini della Magna Grecia.
Accanto le scene figurate, altrettanta attenzione va posta poi sui riempitivi di genere che compaiono non solo sui due pannelli principali ma su tutta la superficie vascolare. Sul labbro si osservano i motivi a filetti verticali presenti nelle produzioni coloniali coeve, sulla parte superiore della pancia stelle, tremuli, piccoli zig zag, al di sotto delle figure di maggior impegno, lungo tutta la circonferenza, due sottili linee parallele e poi una tipica decorazione a scacchiere con caselle alternate lasciate con la semplice ingubbiatura chiara o riempite di colore rosso. Il motivo a scacchiera è stato osservato essere presente nei crateri siracusani della necropoli del Fusco, datati sempre alla metà del VII a. C. . Nell’esemplare con sfinge nel campo metopale, ritenuto l’esponente più alto di una produzione in realtà estremamente ineguale ( Bandinelli – Paribeni 1975, scheda n. 141.), il disegno a scacchiera, di dimensioni più ridotte rispetto all’esemplare ceretano, parte giusto al di sotto della scena figurata ed è racchiuso nella zona inferiore da un motivo a tremuli e zanne di lupo, tra i più tipici dell’artigianato magno greco. In realtà, l’accostamento pur sempre valido con la ceramica siceliota è superato dai molti rinvenimenti degli ultimi anni effettuati in special modo nella chora metapontina e all’Incoronata. Si è notato che il materiale rinvenuto “dimostra come questi motivi fossero patrimonio comune anche delle ceramiche dell’Italia meridionale, derivando da analoghi modelli greci di origine argiva e cicladica” (P. Orlandini 1983, p. 332). In ambito argivo, nell’orizzonte cronologico del secondo quarto del VII sec. a. C. , segnaliamo a tal proposito un frammento di cratere ora al Museo di Argo, che ripropone la scena dell’accecamento, nella quale il ciclope è ritratto steso su pietre che rassomigliano a squame colorate, e Ulisse con i compagni è rappresentato con estrema linearità. In questo caso il motivo a scacchiera è assente, sostituito da quello a rombi di piccole dimensioni che si intersecano a vicenda formando angoli di 90 gradi. Il cratere argivo si avvicina alla grande anfora di Eleusi soprattutto per la formulazione eroica della struttura formale delle figure, un vivido colorismo pervade questo raro e quindi prezioso testimone dell’arte peloponnesiaca del periodo orientalizzante, fornendo anche un valido appiglio per il cratere di Aristonothos e per la presunta origine cumana, mediata da influenze argivo – cicladiche, del suo celebre vaso. In questo particolare contesto della ricerca vascolare arcaica, l’ Orlandini ha giustamente osservato l’uso della phi al posto del theta sia nella firma di Aristonothos, sia nel vasetto di Tataie a Cuma, giungendo alla conclusione, come il Guarducci, che il cratere in questione sia stato realizzato in ambito cumano o pithecusano secondo una suggestione storico artistica che personalmente propongo.
Autore: Dott. Luca Basile
Cronologia: Arch. Magna Grecia