Le migrazioni di antiche popolazioni che negli ultimi 9000 anni hanno percorso le pianure che dall’Europa centrale si estendono fino all’Asia centro-orientale sono state, almeno parzialmente, ricostruite grazie al sequenziamento e al confronto di decine di genomi umani tratti da reperti rinvenuti in questa vasta area.
I risultati di queste analisi, condotte da un ampio gruppo internazionale di studiosi coordinati da Peter de Barros Damgaard ed Eske Willerslev, dell’Università di Copenaghen, hanno importanti implicazioni anche per la ricostruzione della storia della domesticazione del cavallo, della diffusione delle lingue indoeuropee e dell’origine di malattie come la peste e l’epatite B.
Da anni i paleoantropologi si interrogano sulle ragioni del successo delle lingue indoeuropee, chiedendosi se la loro diffusione in tutta l’Europa sia avvenuta attraverso lo spostamento di popolazioni oppure per contagio culturale. L’ipotesi prevalente è che il fattore chiave della diffusione siano state la domesticazione del cavallo e l’invenzione del carro, entrambe realizzate circa 3000 anni fa dalla cultura Yamnaya, composta da popolazioni di pastori che vivevano in Europa orientale e in Asia occidentale.
Secondo alcuni ricercatori nella sua espansione verso est questa popolazione si sarebbe mescolata con quelle locali diffondendo così fino nell’Asia centrale e meridionale la lingua proto-indoeuropea, che si sarebbe poi differenziata, oltre che nelle lingue europee occidentali, nel russo, nel persiano e nell’hindi.
Come si legge nell’articolo pubblicato su “Science”, Damgaard, Willerslev e colleghi hanno sequenziato il genoma estratto dai resti di 74 individui vissuti tra 3500 e 1500 anni fa circa nella regione compresa fra l’Anatolia e l’Asia centrale e quello di reperti relativi ai cavalli usati da quelle antiche popolazioni per poi confrontarli con quelli ottenuti da attuali abitanti di quelle regioni e dei cavalli odierni.
L’analisi dei dati ha mostrato che già 5500 anni fa erano presenti cavalli domestici in una popolazione di pastori insediata prevalentemente nella regione dell’attuale Kazakistan, i Botai, discendenti direttamente dalle tribù di cacciatori del Paleolitico.
Questi cavalli, tuttavia, a differenza di quelli della cultura Yamnaya, non hanno lasciato discendenti giunti fino a noi, mostrando che nelle due popolazioni il processo di domesticazione è avvenuto in modo indipendente. E non è stata trovata traccia neppure di un flusso genico dagli Yamnaya ai Botai, che in un primo momento sarebbero stati letteralmente scavalcati dall’espansione Yamnaya (diretti ancora più a est) verso i monti Altai, per essere poi scacciati da ulteriori migrazioni.
Gli autori mostrano anche che la più antica lingua indoeuropea conosciuta, l’hittita, non è il risultato di una massiccia migrazione dalla steppa eurasiatica: nei resti di antichi hittiti non vi sono tracce di geni derivati dagli Yamnaya, suggerendo che nel loro caso il contagio linguistico sia avvenuto per via culturale.
Quanto alle tracce di DNA euroasiatico trovato nelle popolazioni dell’Asia centrale e meridionale, anche in questo caso quelle attribuibili agli Yamnaya sono molto scarse. Un contributo maggiore potrebbe essere invece venuto da un gruppo di pastori, i Namazga, che vivevano nelle steppe del Turkmenistan intorno al 3300 a.C., prima della grande migrazione di Yamnaya.
In un secondo studio, coordinato sempre da Damgaard e Willerslev e pubblicato su “Nature”, i ricercatori hanno iniziato a tracciare la storia delle migrazioni umane nelle steppe euroasiatiche successive a quelle risalenti all’Età del Bronzo. A questo scopo hanno analizzato il genoma di 137 soggetti i cui resti coprono un arco di tempo di 4000 anni e sono stati ritrovati rinvenuti in diverse aree di questo vasto territorio (circa 8000 chilometri, dalle piane dell’Ungheria e della Romania fino alla Mongolia e alla regioni nord-orientali della Cina).
Le analisi hanno mostrato che la grande confederazione degli Sciti che dominò le steppe eurasiatiche centro-occidentali per tutta l’Età del ferro era formata da gruppi di origini diverse, ma che parlavano tutte lingue di origine indoeuropea. Questi gruppi comprendevano infatti popolazioni di pastori originari della regione dei monti Tian Shan, in Asia centrale, tribù di cacciatori-raccoglitori della Siberia meridionale e popolazioni europee dedite all’agricoltura, variamente mescolate a seconda della localizzazione geografica.
Nel corso del tempo, la componente genetica delle popolazioni di cultura Yamnaya fra gli Sciti è diminuita, quasi sparendo con la successiva migrazione verso ovest – fra il III e il II secolo a.C.- dei nomadi delle steppe orientali, che nella regione della Mongolia avevano formato la confederazione Xiongnu.
Ulteriori migrazioni di gruppi provenienti dall’Asia orientale hanno infine fatto sì che le steppe eurasiatiche originariamente occupate da popolazioni prevalentemente occidentali e di lingua indoeuropea venissero abitate da popolazioni di lingua turca originarie dell’Asia orientale.
Lo studio ha anche confermato che alle migrazioni degli Unni va imputata la diffusione della cosiddetta peste di Giustiniano, che fra il 541 e il 542 devastò l’Impero romano d’Oriente. Le analisi genetiche hanno infatti rilevato nei resti di due antichi unni – uno, del 180 d.C., rinvenuto nella regione dei Tian Shan; l’altro del 500 d.C. circa, in Ossezia – tracce di un’infezione da Yersinia pestis dello stesso ceppo che aveva funestato Costantinopoli.
In alcuni dei reperti analizzati da Willerslev, Damgaard e colleghi sono state trovate anche tracce di casi di infezione da virus dell’epatite B (HBV) che hanno offerto l’occasione per una ricerca satellite – anch’essa pubblicata su “Nature” – per un tentativo di ricostruzione della filogenesi del patogeno. I ricercatori hanno integrato questi dati con quelli già ottenuti in altre ricerche precedenti su diverse popolazioni antiche e hanno poi confrontato il risultato dei sequenziamenti con quelli dei data base che collezionano i genomi dei ceppi di HBV in popolazioni umane moderne moderne, altri primati, pipistrelli e roditori.
Dall’analisi dei dati è risultato che il virus colpisce la nostra specie da almeno 4500 anni, con una maggiore prevalenza nelle regioni comprese fra la Germania e la Russia, in contrasto con le risultanze ottenute sulla base dell’analisi dei soli ceppi moderni del virus, che vorrebbe la sua origine in Africa. Stabilire la sua reale origine, concludono gli autori, non è tuttavia ancora possibile, data la complessità delle derive genetiche a cui è andato incontro nel corso dei millenni e la scarsità di reperti fossili provenienti dall’Africa e altre regioni tropicali.
Fonte: www.lescienze.it, 10 mag 2018