… Già solo il viaggio verso Craco, la meta di questo articolo, vale la pena d’esser fatto per l’enormità della vedute a cui il paesaggio ci obbliga. La forza straordinaria dei declivi e delle campagne che si dipanano dinanzi ai nostri occhi, la mastodontica grandezza e potenza della natura, il mutismo assoluto e assolato delle colline distese elegantemente su loro stesse e, soprattutto, il grano, raggruppato in innumerevoli ciuffi biondi ovunque, ci catapultano in una strana dimensione tra il catatonico e la fascinazione verso ciò che non conosciamo. E che sembra appartenuto al Pianeta Terra da sempre solo che, esclusivamente in quel momento, ha deciso di rivelarcelo. Si srotola, in un certo senso, il paesaggio dinanzi a noi, durante l’appropinquarsi a Craco. Si srotola e due cose, subito, saltano alla mente: quanto l’indispensabilità poetica dei Padri Costituenti avesse tenuto in conto di territori come questo quando, nell’Articolo 9 della Costituzione, non dimenticarono chi eravamo e dove avremmo vissuto stabilendo, fortunatamente, che il sistema giuridico “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” e, soprattutto, le stupende parole di Carlo Emilio Gadda ne La cognizione del dolore (1963): “E alle stecche delle persiane già l’alba. Il gallo, improvvisamente, la suscitò dai monti lontani, perentorio ed ignaro, come ogni volta. La invitava ad accedere e ad elencare i gelsi, nella solitudine della campagna apparita”. Perché, nel tragitto verso Craco, sembra che sia l’alba anche quando non è l’alba.
CRACO E LE PAROLE DI CARLO EMILIO GADDA
L’ora è sempre quella della “rinascita”, di ogni nuovo giorno, anche quando ci si sta dirigendo verso un luogo morto: commovente paradosso. L’ora, infatti, sembra essersi stabilita con testardaggine e dolcezza in quei pochi minuti di ogni meraviglioso rilevarsi del sole, perpetuo e diuturno, in cui la luce è sfuggente, drammaticamente tenue, malinconicamente diffusa, mai tagliente e che pare possa sempre rimanere così, in eterno, disvelandoci qualcosa, su di lei e su di noi, anche quando quei pochi minuti, poi, passano. Ma se anche “passano”, come è naturale che sia, quei “pochi minuti”, una cosa è assolutamente certa: a non passare mai è quella sensazione di stupore di quando, dinanzi a noi, per ogni attimo che scorre, si scorge che qualcosa di solo apparentemente uguale a prima ma, sorprendentemente sempre ritmicamente diverso, pur nell’uguaglianza del paesaggio circostante, ci sta trafiggendo. Quel qualcosa che Carlo Emilio Gadda, appunto, definì attraverso l’uso della parola “elencare”. Non è altro che un inesauribile elenco sulla perfezione della Natura, infatti, ciò che ci propone, centimetro dopo centimetro, l’arrivo a Craco immersi nelle sue campagne desolate. Ed è, ancora una volta come Gadda scrisse, come se le strade, sinuose, ci “invitassero” letteralmente a spingerci oltre; e, ancora, ad “accedere” alla meraviglia, fino agli ultimi chilometri nascosta, di Craco: il paese fantasma.
Ma a un certo punto del viaggio, poi, di colpo, dopo le ultimissime curve, la meraviglia si fa “apparita” ‒ salutando per l’ultima volta il nostro Gadda ‒ e il paesaggio circostante lascia spazio all’innalzarsi verso il cielo del più grande monumento alla morte che le città del mondo abbiano mai lasciato in eredità: Craco.
LA FRAGILITÀ E LA DETERMINAZIONE DI CRACO
Subito ci appare viva la città fantasma arroccata su uno sperone irto di monte su cui pare in equilibrio solo per una pura e sbilenca casualità miracolosa che va avanti da millenni. Ogni volta che Craco non precipita verso il basso delle sue valli sconfinate circostanti, insomma, è come se avvenisse un piccolo miracolo agli occhi di chiunque la osservi. Lo slancio verso l’alto della conformazione urbana che la contraddistingue, infatti, tradisce tutto il paesaggio circostante e, su di esso, serenamente, in bilico costante, semplicemente impera e domina con una possente ma stabile fragilità. Come fosse una piccola canaglia di periferia che sa gestire il mondo circostante. Come il piccolo pastorello Davide che, con la sola sua fionda, in ogni quadro che si rispetti, sconfigge il gigante Golia, la piccola Craco non si piega alla morte: ma respira con il suo vento tutta l’aria del mondo. Come la statua Fearless Girl (2017) dell’artista norvegese Kristen Visbal a New York, che guarda indisponente e coraggiosa, senza temere la morte, il grande toro infuriato simbolo del capitalismo (e del sogno) americano, la piccola Craco non demorde e sfida il tempo. Infine, come l’adolescente di Balthus, nel meraviglioso dipinto I giorni dorati (1945), Craco, insinuante, languida, distesa, contorta, desiderabile, quasi non si interessa delle vicende dell’altrove circostante: si specchia nella sua bellezza fatiscente ma immortale, oltre ogni decesso, più viva che mai, al di là del tempo. Ecco perché paiono inutili finanche le buone intenzioni del World Monuments Fund che, nel 2010, ha incluso il borgo nella sua lista dei monumenti da salvaguardare. Craco, semplicemente, sembra potersi salvaguardare da sola, lontano dalla vita.
CRACO E MATERA
Con il potere seduttivo della sua linea slanciata verso l’alto come assediata da un “gotico” costante che la eleva verso un presunto Dio, Craco è come se ghignasse della vicina Matera perennemente sovraffollata e ingolfata dai turisti (non solo grazie alla sua altrettanto inimitabile bellezza: ma, soprattutto, negli ultimi mesi fino a poco prima del Covid-19, per il titolo conferitole di Capitale europea della Cultura 2019) sussurrandole, da lontano, qualcosa come: “Così si gestisce, la solitudine; così si gestisce, il silenzio; così si gestisce, la morte”. Per le strade senza persone e senza anime di Craco, di fatto, nonostante la morte e nonostante l’etichetta di paese fantasma, si sentiva la vita anche prima di questa tragedia contemporanea e, per questo, continuerà a sentirsi. Perché, pur nell’assenza di anime, Craco aveva e continuerà ad avere un’anima. Solitaria, schiva, diffidente, sublime, irraggiungibile. Non teme l’emergenza del Coronavirus degli ultimi mesi, giacché lei è sempre stata nella condizione di profonda solitudine. Basta a se stessa, grazie al privilegio dell’abbandono che iniziò nel 1963.
Forse, per la prima volta, Craco, non sente la competizione con la sorella maggiore e cosmopolita che è diventata ormai Matera e, finalmente, può dirsi uguale a lei. Movimenti tellurici, brigantaggio, frane, disastri infrastrutturali, alluvioni: tutto ha cercato di abbatterla. Anche quest’ultimo nemico virale dal nome strano: Covid-19. Ma nessuno ci è mai riuscito. Niente ci è mai riuscito, anzi. E gli uomini, con il triste abbandono, anzi, appaiono come esistenze che le hanno conferito un’opportunità: l’opportunità di stare al mondo, per sempre, oltre l’ingiuria della storia e del tempo che scorre.
Autore: Luca Cantone D’Amore
Fonte: www.artribune.com, 16 lug 2020