Archivi

COME SI PROTEGGONO I BENI CULTURALI IN GUERRA: non è vero che le leggi internazionali siano inadeguate o inapplicate.

Francesco Francioni riesamina i trattati vigenti (Convenzione dell’Aia, Convenzione Unesco, Unidroit), e smentisce lamenti e recriminazioni sulla loro efficacia.

Nel campo della protezione del patrimonio artistico, così come quello della tutela ambientale o della difesa della dignità umana, l’interesse dell’opinione pubblica per il ruolo svolto dal diritto internazionale sembra riaccendersi solo nei momenti di crisi, di emergenza o di catastrofi. Ecco quindi levarsi, in corrispondenza della recente guerra irachena, lamenti e recriminazioni sull’inadeguatezza degli strumenti normativi internazionali e sulla loro imperfetta applicazione da cui sarebbe derivato lo scempio del Museo Nazionale di Baghdad e il massiccio trafugamento di reperti archeologici. Esempio ne è l’articolo di Marina Papa Sokal sul Sole 24 Ore significatamente intitolato “Fatta la Convenzione, trovato l’inganno”. In realtà sarebbe opportuno evitare di prendere spunto da una situazione così eccezionale e drammatica come quella della guerra e dell’occupazione dell’Iraq, per misurare il grado di efficacia degli strumenti legislativi e delle istituzioni internazionali preposte alla conservazione e protezione del patrimonio culturale.

In un conflitto come quello iracheno, che ha visto scavalcare le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, sarebbe stato difficile attendersi un ruolo preminente dell’Unesco, o di altre istituzioni internazionali, nella salvaguardia del patrimonio artistico nel teatro di guerra. Ma è proprio vero che i trattati e le norme internazionali non hanno funzionato o non sono stati applicati?

Se prendiamo gli Stati Uniti, Paese che ha la responsabilità primaria della guerra all’Iraq e che si è attirato le maggiori critiche per non aver prevenuto il saccheggio e la devastazione del Museo di Baghdad, pur non avendo ancora ratificato, a causa delle incertezze del Senato, la Convenzione dell’Aia del 1954 sulla protezione dei beni culturali in tempo di guerra, ormai da molti anni partecipa attivamente ai lavori in sede Unesco per il rafforzamento della Convenzione stessa e sottopone ad attento scrutinio le proprie operazioni militari in funzione della salvaguardia di beni culturali potenzialmente coinvolti in un attacco armato.

La sezione internazionale dell’Ufficio legale del Pentagono, Office of the Judge Advocate General, addestra sistematicamente il personale militare al rispetto dei beni culturali, al divieto di uso militare dei medesimi, all’interpretazione della necessità militare in senso assolutamente restrittivo, all’obbligo dell’avvertimento preventivo in caso di bombardamento.

I manuali e le regole d’ingaggio sancite nell’Operational Law Handbook considerano la maggior parte delle disposizioni protettive della Convenzione dell’Aia come norme di diritto consuetudinario vincolanti per tutti i membri della comunità internazionale e quindi anche per i comandi militari americani.

A fronte di ciò, pur avendo l’Iraq ratificato la Convenzione dell’Aia, abbiamo assistito, sia nella Guerra del Golfo del 1991, sia nella guerra appena terminata, a un sistematico dispiegamento di obiettivi militari (personale, sistemi missilistici, artiglieria, ecc.) in prossimità di moschee, siti archeologici e beni culturali di grande interesse, in flagrante violazione delle norme internazionali accettate dall’Iraq e con l’intento specifico di costringere le forze della coalizione a coinvolgere siti culturali in un eventuale attacco.

E’ evidente, quindi, che sono i regimi repressivi, come quello di Saddam Hussein, che non tengono in nessun conto il valore della vita e della dignità umana, a mostrare anche un totale disprezzo per le testimonianze tangibili e intangibili della cultura e della civiltà.

In Italia la tutela contro i rischi bellici inizia in tempo di pace.

Per quanto riguarda l’Italia, è vero che la Costituzione repubblicana ripudia la guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”; ma è altrettanto vero che nel nostro Paese la tutela del patrimonio culturale rispetto a eventuali rischi bellici comincia in tempo di pace, sia con l’insegnamento del diritto umanitario di guerra, sia con il capillare addestramento dei quadri militari al rispetto della Convenzione dell’Aia, che è legge dello Stato. Inoltre, sul piano internazionale l’Italia ha dato un contributo sostanziale alla redazione e all’adozione nel 1998 dello Statuto della Corte penale internazionale che prevede come crimini di guerra, art. 8 (e) (iv), l’attacco armato contro beni culturali, e, nel 1999, del Secondo Protocollo alla Convenzione dell’Aia che istituisce un meccanismo di protezione rafforzata in tempo di guerra, un comitato intergovernativo che ne garantisce l’applicazione, nonché un sistema di regole giurisdizionali che contemplano la responsabilità penale individuale di colore che compiano crimini contro i beni culturali nel corso di conflitti armati. L’esigenza di tutelare il patrimonio culturale da distruzione internazionale e atti vandalici non si limita al tempo di guerra. Dopo la distruzione deliberata, e in tempo di pace, dei Buddha afghani da parte del regime islamista dei Talebani nel 2001, su pressione delle Nazioni Unite e dell’Unesco è stato costituito un comitato di esperti per la redazione di un nuovo strumento normativo atto a prevenire e reprimere gli atti di distruzione volontaria di beni culturali di grande importanza per l’umanità.

Il Comitato ha redatto una dichiarazione che sarà approvata alla prossima Conferenza Generale dell’Unesco nell’ottobre di quest’anno. Chi scrive ha partecipato alla redazione del documento come esperto giuridico dell’Unesco.

Trafugamenti, furti ed esportazione illecita. Oltre che dai conflitti armati, il pericolo per il patrimonio culturale viene dal trafugamento, dai furti e dall’esportazione clandestina. E’ il caso del Museo Nazionale di Bagdhad la cui devastazione è stata causata non dai bombardamenti angloamericani, ma dal saccheggio che ha fatto seguito al causa della guerra. La situazione non è nuova. Simili disastri sono avvenuti in Afghanistan e in Albania, per menzionare solo alcuni casi recenti. Anche qui però occorrerebbe evitare di diffondere l’idea che gli strumenti internazionali siano inadeguati o inapplicati. Da una situazione di totale anarchia e di progressiva spoliazione di molti Paesi ricchi di risorse culturali, si è passati, a partire dagli anni Otttanta, a forme di cooperazione efficace nella lotta al traffico illecito che hanno determinato una totale inversione di tendenza a livello legislativo e giurisprudenziali nei Paesi importatori.

Negli ultimi venti anni hanno aderito, o stanno per aderire, alla Convenzione Unesco del 1970 sulla repressione del traffico illecito di beni culturali tutti i maggiori Paesi di mercato di antichità e beni artistici, a partire da Stati Uniti, Francia, Belgio, Gran Bretagna, Giappone e Svizzera, oltre naturalmente all’Italia. La Convenzione Unesco prevede un obbligo di cooperazione anche nella restituzione di opere trafugate da musei e monumenti e permette la conclusione di accordi bilaterali per far fronte a situazioni di emergenza attraverso un controllo rafforzato sulle importazioni.

L’Italia ha utilizzato questa facoltà stipulando uno specifico accordo con gli Stati Uniti nel gennaio 2001 che permette di bloccare alle dogane statunitensi reperti archeologici risalenti ai “periodi romani, pre-classico, classico e imperiale dell’Italia”. Ma l’impulso maggiore alla moralizzazione del mercato delle antichità e delle opere d’arte viene dai tribunali e dalla giurisprudenza dei Paesi importatori. Negli Stati Uniti la restituzione dei beni culturali illegalmente esportati viene agevolata dall’istituto delle forfeiture, vera e propria confisca del bene da parte delle autorità, come è avvenuto per la celebre “gold phiale” di origine siciliana nel caso Steinhard. In Europa, le corti britanniche hanno negato l’applicazione dei termini di prescrizione nell’azione di restituzione di opere d’arte trafugate dalla Germania in Unione Sovietica alla fine della seconda guerra mondiale (City of Gotha contro Sotheby’s 1998, Queen’s Bench Division). Nel caso di beni trafugati da territori sottoposti ad occupazione militare, com’è avvenuto per il Museo di Bagdhad, le corti statunitensi, pur non essendo vincolate al primo protocollo della Convenzione dell’Aia del 1954, non ancora ratificata dagli USA, hanno tuttavia proceduto alla restituzione dei beni sul presupposto che l’acquirente debba ragionevolmente accertarsi della provenienza lecita dell’oggetto (vedasi in particolare il caso Boldberg contro Chiesa Ortodossa di Cipro, 1989, riguardante il furto di preziosi mosaici bizantini rivenduti in una zona franca dell’aeroporto di Ginevra a una mercante d’arte americana). Naturalmente esistono ancora numerosi accorgimenti ed espedienti giuridici per legalizzare l’acquisto di beni culturali di provenienza clandestina o chiaramente illecita. Lo strumento classico è dato da quegli ordinamenti che permettono, come l’articolo 1153 del codice civile italiano, l’acquisto “in buona fede” della proprietà su un bene mobile rubato, o la preclusione attraverso termini brevi di prescrizione o decadenza dell’azione di rivendicazione del bene rubato da parte del legittimo proprietario.

A queste norme deplorevoli di “riciclaggio” ha cercato di porre rimedio la Convenzione Unidroit adottata a Roma nel 1995. Essa si discosta dal criterio soggettivo e difficilmente sindacabile della buona fede e sancisce l’obbligo tassativo della restituzione del bene culturale rubato. Altre novità importanti sono l’introduzione del concetto di “dovuta diligenza” del compratore, il quale dovrà dimostrare di aver esercitato un sufficiente livello di curiosità circa la provenienza lecita del bene, pena l’esclusione del diritto a un equo indennizzo, e l’adozione del principio della non prescrittibilità dell’azione di recupero di beni culturali rubati (art. 3 par. 4). La Convenzione Unidroit è stata ratificata dall’Italia ed è già entrata in vigore. Essa costituisce un potente strumento di controllo del traffico illecito dei beni culturali e facilita, nei Paesi dov’è in vigore, la restituzione dei beni trafugati in Iraq qualora alcuni di essi avessero preso le vie dell’esportazione clandestina.
Fonte: Il Giornale dell’Arte giugno 2003
Autore: Francesco Francioni

Segnala la tua notizia