Professor Tuniz, Lei è autore insieme a Patrizia Tiberi Vipraio del libro La scimmia vestita. Dalle tribù di primati all’intelligenza artificiale edito da Carocci: cosa ci lega alle scimmie?
Con le scimmie, un termine molto generale, spartiamo vari tratti anatomici e di comportamento: la visione stereoscopica, le mani prensili, un’ampia corteccia cerebrale e un elevato grado di socialità. Ma le scimmie sono molto diverse fra loro e si sono evolute in tempi diversi, seguendo strade diverse. Gli antenati che abbiamo in comune con gli attuali scimpanzé, ad esempio, si sono separati dalla linea che ha portato ai gorilla 10 milioni di anni fa. La linea degli ominidi si è a sua volta separata da quella degli scimpanzé circa 7 milioni di anni fa.
L’estinzione di tutti gli altri ominidi fa sì che gli scimpanzé rappresentino oggi i nostri parenti più stretti. Ma mentre le altre scimmie antropomorfe hanno continuato a vivere in equilibrio con l’ambiente, in condizioni di isolamento, noi siamo diventati una specie invasiva e cosmopolita, che può sopravvivere ovunque, riducendo la biodiversità e divorando tutte le risorse disponibili.
Ora, anche scimpanzé e gorilla si stanno estinguendo, assieme a molti altri grandi animali. Alla fine del secolo, al di sopra di una certa taglia, potranno sopravvivere tranquillamente soltanto gli animali che ci servono o che ci piacciono.
Quali sono le origini della biodiversità umana?
La biodiversità, in generale, deriva dai processi che selezionano le diverse specie in base alla loro capacita di adattarsi agli ecosistemi in cui vivono. Sulla terra, le condizioni ambientali cambiano continuamente, a causa di fenomeni geologici ed astronomici, modulati dai flussi atmosferici e dalle correnti marine. Negli ultimi tre milioni di anni, per esempio, la riduzione dell’irraggiamento solare ha provocato diverse ere glaciali, e questo ha favorito la selezione di particolari gruppi di scimmie. A un certo punto, ai margini di alcune foreste africane, emersero alcune specie di primati bipedi, dotate di certi caratteri che i paleo-antropologi definiscono come “umani”: mani adatte a costruire strumenti di pietra, piedi arcuati per correre, spalle elastiche per lanciare oggetti, un corpo quasi privo di peli e un cervello sempre più adatto a comunicare e socializzare. Alcuni di questi primati riuscirono anche a domare il fuoco e questo aprì straordinarie opportunità evolutive. La loro adattabilità fu tale che, a partire da circa due milioni di anni fa, alcuni gruppi uscirono dalla culla africana e, in Eurasia, nacquero altre specie umane.
In seguito, gli umani arcaici africani si trasformeranno in Sapiens, quelli presenti in Eurasia diventeranno Neanderthal, Denisoviani, Hobbits e altri ancora. Questa situazione di biodiversità umana prevalse fino a 100 mila anni fa, senza provocare impatti di rilievo sulla fauna e la flora del pianeta. Poi i Sapiens africani subirono una metamorfosi straordinaria, riducendo la loro aggressività, sia nei tratti che nel comportamento, e dedicandosi a una frenetica socialità. Così facendo si trasformarono in un invincibile organismo collettivo.
Con un cranio rotondo e la fronte alta, dalle loro reti neurali emersero nuove capacità mentali. Essi furono in grado di generare realtà immaginarie, segni e simboli che potevano emozionarli ed unirli. La conoscenza diventò collettiva e si accumulò, migliorando ancora le capacità di adattamento. Ma una minore aggressività nei confronti dei propri simili si tradusse in una maggiore aggressività nei confronti dei diversi. E quando fu il loro turno di uscire dall’Africa, e di conquistare tutto il pianeta, questa caratteristica provocherà, direttamente e indirettamente, l’estinzione di tutte le altre specie umane, e di moltissimi mammiferi e uccelli giganti che allora popolavano la terra.
Cosa è rimasto dei Neanderthal?
Dopo i Sapiens, i Neanderthal sono la specie umana che conosciamo meglio. Ma mentre dei primi abbiamo a disposizione più di sette miliardi di campioni viventi, dei nostri fratelli con la testa a palla da baseball sono rimaste solo ossa e denti. Con i nuovi metodi scientifici, però, questi resti ci rivelano molti loro segreti: dieta, malattie, migrazioni sul territorio, sviluppo, longevità, vita sessuale. E non poche sorprese.
Fino a tempi recenti i Neanderthal erano dipinti come dei bruti primitivi e animaleschi. Sembra invece che non fossero affatto così e che anzi prestassero molta attenzione al loro look. In siti archeologici del Veneto e del Friuli troviamo collane Neanderthal fatte di artigli d’aquila e penne colorate di vari uccelli. Recenti scoperte in Spagna suggeriscono che producevano arte rupestre e si dipingevano il corpo. Erano umani diversi, ma non troppo diversi da noi.
Come mai si sono estinti? Forse noi eravamo più prolifici, longevi e pro-sociali di loro? Secondo gli antropologi, una piccola differenza in questi parametri avrebbe potuto essere determinante. Ma si sono veramente estinti? A dire il vero, il loro DNA ci racconta che forse non ci hanno lasciato del tutto. Si sono dissolti nell’ondata di Sapiens che ha coperto tutto il pianeta. E oggi noi (europei, ma anche molti asiatici) ne conserviamo una piccola parte nelle nostre cellule.
Quando e come è comparsa la vestizione?
Certe religioni danno interessanti motivazioni e tempistiche su questo evento. Curiosamente, sembra che la migliore risposta scientifica venga dall’analisi genetica dei parassiti umani. Infatti, mentre i nostri capelli possono ospitare i pidocchi che abbiamo ereditato dall’antenato comune con gli scimpanzé, un ulteriore pidocchio si è evoluto sui nostri vestiti (dove deposita le uova). Da lì si sposta sulla pelle più volte al giorno per nutrirsi. Recenti analisi del suo DNA mitocondriale ci dicono che questo particolare pidocchio si era separato dal pidocchio del capo fra 100 e 200 mila anni fa. Questa data corrisponderebbe appunto alla nostra prima vestizione, quando noi Sapiens vivevamo ancora in Africa.
Un abbigliamento adeguato si sarebbe rivelato in ogni caso utile per affrontare le steppe gelide dell’Eurasia. Si potevano usare pellicce di vari animali, fra cui Ursus speleaus, l’orso estinto delle caverne. Nella Grotta Pocala, vicino a Trieste, sono stati rinvenuti i resti di moltissimi orsi, insieme a strumenti di selce. Si trattava forse di una pellicceria del Pleistocene? Alcuni ricercatori americani sono riusciti a dimostrare che i Sapiens di 40.000 anni fa, sia europei che cinesi, avevano inventato anche le scarpe. Secondo altri ricercatori francesi, anche i Neanderthal esibivano delle comode scarpe fatte di corteccia di betulla.
Con l’emergere del pensiero simbolico, la vestizione andò oltre la mera esigenza di proteggere il nostro corpo dal caldo e dal freddo, potendo definire un ruolo sociale particolare (per esempio quello degli sciamani) e in seguito dare un’immagine particolare di noi stessi agli altri membri del gruppo (abilità, potere, stato sociale, funzione). La vestizione poteva anche essere legata alla competizione sessuale, aiutando a sedurre l’altro sesso col proprio gusto e la propria fantasia. In generale, assieme all’uso di ornamenti e di pitture corporali serviva a far immaginare ruoli, gerarchie e identità tribali. Potevamo così definire chi eravamo “noi” e chi erano gli “altri”.
Come si è sviluppata l’evoluzione al femminile?
In effetti, molti dei resti più famosi appartengono a delle femmine. L’australopiteco Lucy, l’ardipiteco Ardi, i resti dello strano gnomo dell’isola di Flores, come pure la nuova specie scoperta recentemente nella caverna di Denisova in Siberia, sono tutti reperti che appartengono al “gentil sesso”. Secondo alcuni paleoantropologi, sembra che le femmine abbiano avuto un ruolo determinante in passaggi cruciali dell’evoluzione umana, dall’assunzione della posizione eretta al linguaggio complesso, dal pensiero simbolico alla trasmissione e all’accumulazione della cultura, dalla divisione del lavoro all’auto-domesticazione (quella che spesso chiamiamo civilizzazione).
Un ruolo che hanno pagato a caro prezzo. Il bipedismo – che ha causato il restringimento del canale del parto – associato ad una generale crescita del volume del cranio, ha provocato una strage di donne e bambini durante il Paleolitico. E ancor oggi mamme e neonati continuano a morire. Sembra addirittura che i problemi dovuti all’inadeguatezza del bacino pelvico materno rispetto alla taglia dei neonati si starebbero esacerbando, in questi ultimi decenni, a causa della diffusione del parto cesareo. L’evoluzione al femminile continua e richiederà sempre maggiore assistenza per procreare.
Come si nutrivano e di cosa si ammalavano i nostri antenati?
L’adattamento degli ominidi ai cambiamenti ambientali avveniva attraverso modifiche anatomiche e di comportamento. In certi gruppi di scimmie bipedi pre-umane, i Parantropi, si selezionarono mascelle possenti per triturare radici ed altri cibi di bassa qualità, durante le fasi più aride dei periodi glaciali. Altri ominidi, invece, erano in grado di modificare le loro abitudini, usando fuoco e utensili, per nutrirsi di cibi più digeribili, ad alto contenuto proteico. Questo fu importante per alimentare la crescita del loro cervello e consentire un aumento della loro adattabilità ambientale. Più tardi fummo in grado di accedere a risorse concentrate, che andavano difese, e accumulare surplus alimentari, che andavano condivisi.
Alla fine riuscimmo a progettare il nostro cibo, allevando animali e a coltivando cereali, frutta e verdura. Ma ci furono dei prezzi da pagare. Con l’aumento delle risorse disponibili aumentò anche l’accumulazione della ricchezza alimentare, e quindi le ragioni di conflitto. E incominciammo a diventare più deboli e malati. Una dieta che, per i più poveri, si basava in gran parte sui cereali, apriva la strada a varie malattie, dalla carie al diabete, e aumentava i pericoli di epidemie con l’introduzione della stanzialità.
Alcune nostre malattie hanno in verità una origine più antica. Il confronto tra il nostro genoma e quello dei Neanderthal suggerisce che i frammenti del DNA neandertaliano che portiamo con noi sono associati alla predisposizione a malattie quali la cirrosi epatica e l’alto colesterolo. Anche i Neanderthal soffrivano di malattie dentarie e tumori. Molte malattie sono dovute semplicemente all’evoluzione. Assumendo la posizione eretta ci siamo esposti a nuovi fastidi come l’ernia, le emorroidi, le vene varicose e il mal di schiena. Ogni nuova capacità ha creato problemi. La corsa di Homo ergaster, il linguaggio verbale di Homo sapiens, e l’uso dello smartphone degli umani attuali hanno introdotto nuovi rischi per la salute. E in quest’ultimo caso non solo a causa degli incidenti stradali.
Quando compaiono i primi esempi di culto dei morti?
Il culto dei morti viene attribuito anche ai nostri parenti più stretti, gli scimpanzé, ma ovviamente si tratta di una pulsione che non ha niente di rituale. I Neanderthal seppellivano i loro morti, ma non è ancora confermato che seguissero delle procedure di natura simbolica. I Sapiens iniziano invece già nel Paleolitico a effettuare cerimonie funebri piuttosto elaborate.
I primi esempi si rinvengono in Australia. Nel 1968, dalle dune che ora segnano le sponde meridionali dell’antico lago Mungo (che ora non esiste più) emersero i resti di una donna Sapiens di 50.000 anni fa. Il cerimoniale della sua sepoltura era stato molto elaborato. Il corpo della donna fu prima cremato, poi le ossa residue furono frantumate e infine coperte da uno strato di polvere di ocra. Pratiche funerarie ancora più elaborate si rinvengono in Eurasia. Ad esempio, a Sungir, in Russia, sono state trovate sepolture di 34.000 anni fa che custodiscono un uomo adulto e due fanciulli. I loro ornamenti sono composti da migliaia di grani di avorio di mammut, copricapo e cinture decorati da denti di volpe e altri monili, il tutto ricoperto con polvere d’ocra. In Italia ricordiamo la sepoltura del principe delle Arene Candide, risalente a circa 24.000 anni fa e quella della donna incinta di Ostuni, dello stesso periodo.
Che tipo di società poteva associarsi a tali onoranze funebri?
Senz’altro doveva già esistere un certo surplus di risorse, rispetto alle esigenze di sopravvivenza: il lungo tempo di lavoro necessario a produrre i manufatti più sofisticati richiedeva il sostentamento delle persone che vi si dedicavano. La società aveva probabilmente anche una struttura gerarchica basata sulla divisione del lavoro.
Come si è evoluto il nostro cervello?
L’aumento delle dimensioni del cervello umano, negli ultimi due milioni di anni, è ben documentato. Con cervelli più grandi è possibile aumentare la numerosità dei gruppi sociali e adattarsi meglio agli ambienti in cui sopravvivere. L’adattamento culturale porta con sé strumenti sempre più efficienti e nuove tecniche basate sul fuoco, sia per cacciare che per preparare il cibo. Per tramandare queste conoscenze alle future generazioni serviva un cervello ancora più grande. Una volta accumulate, queste conoscenze costituiscono un patrimonio collettivo. E a questo punto si selezionavano individui con un cervello ancora più grande per gestire tutte queste informazioni, e possibilmente coinvolgere un crescente numero di individui.
Insomma, una volta iniziato il processo di interazione fra evoluzione biologica ed evoluzione culturale, esso tendeva ad autoalimentarsi e ad accelerare, limitato solo da vincoli di natura biomeccanica e fisiologica. Tra 300.000 e 100.000 anni fa gli umani raggiunsero tale limite fisiologico, con un cervello in età adulta di circa 1,4 chili. Con i Sapiens, il processo che connetteva – circolarmente – evoluzione biologica ed evoluzione culturale non solo non si fermò ma diventò addirittura parossistico.
A un certo punto, però, esso non si associò più ad un aumento del volume cerebrale. Si generava sì un deposito di informazioni comuni sulle procedure attraverso cui aumentare le chances di sopravvivenza. Ma non sarebbe stata la nostra intelligenza individuale, bensì la nostra intelligenza collettiva a farci sopravvivere e conquistare il pianeta. Con la divisione del lavoro, prima fra uomo e donna, e poi all’interno di un più ampio gruppo sociale, era possibile decentrare molte funzioni che un tempo riguardavano i singoli individui. In seguito moltiplicammo la generazione e la diffusione del nostro pensiero, e ci dedicammo alla pittura, ai graffiti, alla scrittura, per arrivare, attraverso mille passaggi, all’era digitale.
Negli ultimi cinquantamila anni la nostra specie sembra invertire il trend precedente e si caratterizza per un rimpicciolimento del cervello. Si pensa che questo fenomeno possa essere associato all’emersione di un processo di auto-domesticazione (già presente in maniera embrionale anche nel passato) che si sarebbe accelerato grazie all’emersione di una mente estesa che funziona da volano cognitivo.
In effetti, l’immagine della nostra evoluzione in cui ci trasformiamo da un goffo essere bipede ad un uomo sempre più abile ed intelligente è abbastanza fuorviante. In realtà i diversi ominidi hanno vagato in tutte le direzioni evolutive possibili, e solo a un certo punto è emersa, nella nostra specie, una “soluzione vincente”: quella che ha delegato la formazione e la trasmissione del nostro sapere collettivo ad un organismo sociale, cementato da una cultura basata sulla costruzione di realtà immaginarie e la formazione di credi condivisi.
Quando e come si giunge all’«Uomo Economico»?
Questo personaggio nasce quando abbiamo dovuto inventarci regole astratte per redistribuire la ricchezza generata collettivamente ai diversi membri del proprio gruppo. In una società di cacciatori-raccoglitori la distribuzione del prodotto collettivo è una cosa concreta e non richiede un enorme sforzo di fantasia. Conviene infatti ripartirsi equamente il frutto di una giornata di lavoro perché la fortuna non capita tutti i giorni ed è interesse di tutti sfamarsi anche nei giorni di magra. Ma quando iniziano a formarsi grandi surplus, vuoi per l’abbondanza di qualche risorsa, oppure per la divisione del lavoro, ecco che allora comincia ad emergere l’accumulazione “privata” della ricchezza, e cioè una distribuzione delle risorse che avvantaggia solo qualcuno e ne “priva” l’accesso a tutti gli altri.
Secondo recenti ipotesi, i primi esempi di società che avevano un surplus da difendere sono nate intorno a 100.000 anni fa nelle zone costiere dell’Africa meridionale. Per la prima volta conveniva investire nella difesa di risorse marine concentrate. Un individuo poteva facilmente raccogliere in un’ora risorse marine equivalenti a 5.000 calorie, generando un’enorme quantità di tempo libero per divertirsi e aguzzare l’ingegno. Sarebbe nata così la prima proprietà “privata” (delle risorse) anche se di gruppo. E si sarebbero formate le prime bande di difesa territoriale.
Altri esempi si trovano in Eurasia, tra 20 e 40 mila anni fa, dove la caccia del mammut favoriva lo sviluppo di gruppi sociali organizzati. Non solo si disponeva di enormi quantità di cibo, ma anche di materiali, come pelli e zanne, che permettevano di costruire abitazioni, armi, utensili e ornamenti. Con lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento il surplus aumenta ancora. Ma il problema di come distribuirlo nel corpo sociale non è più facilmente risolvibile. Con la divisione del lavoro, a chi attribuire il merito di aver generato tanta ricchezza collettiva? La sua distribuzione non è più un fatto automatico, ispirato a condividere il rischio, e l’equità non conviene più a tutti. Per imporre la disuguaglianza, tuttavia, non basta la forza. È necessario anche inventarsi delle storie. Nascono così le società piramidali fondate sull’adesione dei sottomessi a queste storie. Quello che per i cacciatori – raccoglitori era una generale condizione di abbondanza, si trasforma ora in un mondo di sovrabbondanza per le élite e in un mondo di scarsità per gran parte della popolazione.
È così che nasce l’Uomo Economico, un personaggio che nel breve periodo, si dice, cerca di allocare al meglio risorse scarse, ma che nel lungo periodo, va ricordato, cerca anche di renderle sempre meno scarse con l’uso del suo ingegno. È di quest’ultimo Uomo Economico che si occupa il nostro libro, poiché è lui a giocare un ruolo determinante nella nostra evoluzione, e ora sta ponendo a rischio la riproduzione delle risorse di questo pianeta, per gli eccessi e gli sprechi di cui è capace. La radice di questi comportamenti – basati esclusivamente sull’interesse proprio – sta nella sua grande presunzione e nella mancanza di volontà – per il momento – di condizionare il suo operato all’interesse collettivo. Una situazione che dipende dal prevalere di una cultura che si basa su un personaggio mitologico – che chiamiamo Economia di Mercato – i cui presunti benefici sono in massima parte incompatibili con l’esistenza delle grandi imprese oligopolistiche e con l’accelerazione delle nostre reticolazioni (informative, tecnologiche, economiche, istituzionali) in massima parte affidata alle macchine intelligenti.
Come sarà l’umanità del futuro?
Il futuro dipende molto da come reagiremo ai nodi del presente. La pervasività della tecnologia nella nostra vita quotidiana ci sta facendo subire alcune importanti modificazioni, sia di tipo anatomico che comportamentale. Potremmo utilizzare la scienza, la tecnologia, e ora l’intelligenza artificiale per potenziarci fisicamente e mentalmente, socializzare su ampia scala e vivere una vita più lunga, sana e “interessante”. Saremmo allora in una prospettiva transumana, popolata da superuomini dotati di protesi intelligenti, dei cyborg, in cui non è ancora chiaro chi dominerà chi: se l’uomo le macchine o viceversa. Nel caso più estremo, con l’avvento della cosiddetta intelligenza artificiale “forte”, saremmo sostituiti da macchine dotate di capacità cognitive superiori alle nostre. Esse simulerebbero il funzionamento del cervello umano, replicando l’evoluzione naturale che ha avuto luogo in milioni di anni. Recentemente sono state prodotte “reti neurali profonde” capaci di effettuare un “apprendimento con rinforzo”. Con questi sistemi, l’intelligenza artificiale è già in grado di imparare da sola e di superare la nostra, almeno in alcune applicazioni particolari. Ci chiediamo se riusciremo a sfruttare queste nuove capacità delle macchine per risolvere i problemi complessi che l’umanità sta creando o se ne perderemo il controllo e ne saremo sopraffatti.
È da più di 50.000 anni che stiamo sviluppando tratti di comportamento pro sociali, rafforzati da meccanismi basati sulle emozioni e su neurotrasmettitori del piacere. La direzione di questo grande gioco collettivo è ora sempre più affidato agli agenti digitali. In passato ci siamo reciprocamente addomesticati – formando società piramidali – non solo con l’uso della forza ma anche attraverso le emozioni generate da immagini e narrazioni che procurano benessere, esaltazione, consolazione, sicurezza, senso di appartenenza. Siamo proprio sicuri, oggi, di non essere a nostra volta sedotti ed assecondati dalle carezze digitali delle macchine? Dovremmo preoccuparci di come ci lasciamo condizionare da chi ci procura salute, benessere, piacere, socialità, divertimento, incontri amorosi? Da chi asseconda i nostri gusti e le nostre idee? Da chi custodisce i nostri risparmi e li fa perfino aumentare, se ci affidiamo a delle chimere che chiamiamo “fondi di investimento”?
Viene anche da chiederci cosa succederà, nei nostri rapporti sociali, quando saremo sempre più isolati all’interno della nostra info-sfera: quello scafandro mentale in cui – grazie ai motori di ricerca, ai blog e ai social network calibrati su di noi – scambieremo idee solo con chi condivide le nostre. Riusciremo ancora a mediare i nostri conflitti, prima di saltarci alla gola? È possibile che la radicalizzazione politica e post ideologica che osserviamo nel mondo contemporaneo sia anche frutto di questo nostro isolamento all’interno di un sistema informativo personalizzato? Dal villaggio globale stiamo forse tornando ai villaggi tribali.
Naturalmente potremmo anche cambiare strada, ed essere più rispettosi dell’ambiente. Secondo alcuni, una nuova specie “post-umana” si starebbe già adattando a vivere in un pianeta alle soglie dell’esaurimento delle risorse e alla distruzione del suo habitat, un pianeta in corso di riscaldamento e di sovrappopolamento. Tutti coloro che si riconoscono in questa visione del mondo, con relativi modelli di comportamento, e che cercano di promuovere una coscienza ecologica, sarebbero già in transizione. Ma il fatto che si tratti di una cultura in nette condizioni di inferiorità rispetto a quella dominante ci fa pensare che nulla di tutto questo potrà mai avvenire – anche senza arrivare a un’ultima e definitiva Apocalisse – prima che abbiano luogo cambiamenti epocali nelle nostre condizioni di sopravvivenza.
Eppure, nonostante tutti i nostri sforzi, il futuro che ci aspetta continua a restare sfuggente. Ma questo, vorremmo sottolineare, è una buona cosa. Come nelle più recenti tendenze narrative, sarà il lettore a scegliere il finale che preferisce. Noi gli forniremo soltanto gli strumenti di cui (modestamente) disponiamo.
Fonte: www.letture.org