La Cividale delle origini, ovvero l’agglomerato urbano di età cesariana, si spingeva fino a Borgo Brossana, come teorizzato da Sandro Stucchi. Fino a ieri era solo un’ipotesi, per giunta contestata da parecchi studiosi; oggi è una certezza.
La prova, inconfutabile, è affiorata dagli scavi archeologici in corso nel complesso monastico di Santa Maria in Valle: il substrato degli ambienti settecenteschi che si sviluppano sul lato orientale del chiostro (fra il tempietto longobardo e porta Brossana, cioè) ha rivelato la presenza di un possente muro di cinta, che l’archeologo Luca Villa, responsabile dell’indagine, ha immediatamente identificato come la cinta romana, appunto, della città antica.
Il manufatto è possente: lo scavo, spintosi fino a tre metri di profondità, gli ha restituito piena evidenza, segnando un nuovo, importantissimo punto fermo nelle conoscenze sulla prima estensione abitativa di Cividale.
Largo due metri e mezzo, il muraglione si innalzava, probabilmente, per almeno dieci e proseguiva fino al dirupo sul Natisone: il tempietto, infatti, poggia su di esso. Rimase in piedi fino al Settecento, quando il processo di ampliamento del convento ne impose il sacrificio.
Una scoperta di straordinaria importanza, dunque, per quanto gli esperti impegnati nella campagna avessero già avuto avvisaglie durante una ricognizione eseguita nel 2008. I piccoli, parziali sondaggi effettuati all’epoca avevano acceso una speranza, ora tradottasi in realtà.
Al rinvenimento della cinta difensiva, però, si è accostato quello di un’infinità di altri elementi architettonici, che disegnano sul terreno il passato remoto del monastero.
L’abbondanza di reperti e di tracce ha lasciato increduli gli stessi componenti dell’équipe al lavoro, che pure avevano già testato – in precedenti tornate di rilevamenti – la ricchezza dei livelli inferiori all’attuale piano di calpestio.
All’esterno del muro, ovvero in direzione del cortile più nuovo di Santa Maria in Valle, sono state identificate numerose strutture, riconducibili all’epoca rinascimentale e addossate alla muraglia: la loro posizione sembra parallela a un edificio (sulla cui funzione si sta riflettendo: l’orientamento, comunque, farebbe escludere il luogo di culto) che certamente era palazzo di pregio; lo attestano resti di affreschi e tracce d’intonaco sul pezzo di parete conservatosi, che si interseca con il muro esterno del monastero settecentesco.
La costruzione, così come quelle contigue, si affacciava su un cortiletto dal pavimento in acciottolato, area all’aperto su cui sono ancora ben evidenti le canalette per lo scolo delle acque. È stata trovata pure una soglia, con parte di una scala.
Il settore attiguo all’oratorio di Santa Maria in Valle ha invece restituito una pavimentazione in cocciopesto, perfettamente conservata, e una porzione di strada, un lastricato che conduceva, verosimilmente, a un varco nel muraglione romano, accesso al convento: una sorpresa, per gli archeologi, che si stanno ora interrogando sulla datazione del tracciato.
Dal sottoportico, infine, è spuntato un focolare, su un piano d’uso in battuto: appartiene a un ambiente del VII secolo, individuato anni addietro.
Gusci di vongole tra i reperti: le monache ne erano ghiotte.
Resti di raffinate ceramiche rinascimentali – fra cui spiccano un frammento di scodella con l’aquila simbolo del monastero di Santa Maria in Valle e un pezzo di stoviglia decorato in oro zecchino – , un capitello medievale, un’infinità di avanzi di pasto: ossicini di pollame, gusci di lumache e soprattutto, dato davvero curioso, di vongole. Le monache, a quanto pare, ne erano ghiotte.
Il secondo settore degli scavi in corso nel complesso conventuale si sviluppa nell’ala del futuro centro visite, ovvero nel braccio parallelo a via Monastero Maggiore.
«Tantissimi, pure in questo caso – spiega l’archeologo Luca Villa, che sta dirigendo le operazioni – , i ritrovamenti: siamo di fronte a una campagna di studio davvero eccezionale, dagli sviluppi inattesi. Il substrato dell’edificio si è rivelato una perfetta sintesi della storia di Cividale. Sono affiorate strutture che spaziano, per cronologia, dall’alto medioevo alla fase pre-settecentesca in cui il convento venne radicalmente ristrutturato e ampliato. Abbiamo individuato importanti manufatti rinascimentali, uno dei quali, in particolare, è risultato un’autentica miniera. Si tratta di una costruzione nella quale è stata rinvenuta la fogna delle cucine del monastero, che erano collocate al piano superiore: gli scarti, da quelli alimentari a piatti e vasellame rotto, venivano gettati in un camino di caduta, di cui abbiamo appunto identificato la base».
E l’immondizia di allora, superfluo dirlo, è manna per gli archeologi: «Non avete idea – racconta Villa – della quantità di gusci di molluschi, vongole per la precisione, che si era accumulata in quello scarico. C’erano, poi, ossa di piccoli animali da cortile e una marea di frammenti di ceramica. Questo ritrovamento ci permette di ricostruire nei dettagli la realtà della mensa cinquecentesca delle suore».
Stupefacente, poi (in un ambiente affacciato sul sagrato della chiesa di San Giovanni), l’intrico murario emerso dal terreno: nel reticolo, particolare per i singolari incroci tra i resti, spicca un grosso muro che corre fino all’attuale ingresso del convento. In un altro spazio, invece, sono stati riportati alla luce – su un piano in lastricato – tratti di muratura che hanno lo stesso orientamento di quelli custoditi dal seminterrato del Museo archeologico nazionale. La sfida, a questo punto, sarà cercare di lasciare a vista quanti più reperti possibile.
Fonte: www.messaggeroveneto.it, 24 nov 2015