L’arco borbonico, chiamato ancora oggi dai partenopei o’ Chiavicone, fu costruito nel XVI secolo per volere del vicerè spagnolo Don Pietro Toledo, come condotto per la principale rete fognaria della città che sfociava sulla spiaggia del Chiatamone, nei pressi dell’attuale Piazza Vittoria.
Come si legge nel libro V del “Le Notizie del bello dell’antico e del curioso della città di Napoli” testo di Carlo Celano (1), il condotto era conosciuto con il nome chiavicone “[…] il condotto, o’ chiavicone, così ampio e lato che adagiatamente caminar vi potrebbe una carrozza, per grande che fusse, e questo principia dalla Pignasecca, presso la Porta Medina, che prima chiamata veniva il Pertugio e va a terminare alla chiesa della Vittoria, sita fuori la Porta di Chiaja, dove dicesi il Chiatamone. In questo chiavicone entrano quasi tutte le acque piovane che scendono dal Monte di San Martino […]”.
Si legge anche che durante la peste del 1656 “[…] quell’infami, e scelerati becchini avvanzi, o per dir meglio dire refiuti della peste, promettendo di portare a sepellire i cadaveri in qualche luogo sagro, li buttavano dentro di questa chiavica, et anco da’napoletani vi fu buttata molta robba, come matarazzi et altra soppellettile sospetta di contagio, con isperanza che il primo torrente d’acqua piovana, che noi chiamiamo lava, l’avesse dovuta portare a mare […]”.
Proprio il 14 agosto dello stesso anno, giorno in cui terminò l’epidemia a causa delle abbondanti piogge, il canale, ormai saturo di tutto ciò che i napoletani vi avevano gettato, collassò ai lati e tutta l’acqua gonfiò la strada andando inevitabilmente anche ad intaccare le fondamenta delle case, parte del collegio di San Tommaso, la biblioteca, fino ad arrivare al carcere di San Giacomo, difronte all’attuale piazza Municipio.
Si intervenne per la prima volta per recuperare la struttura del canale nel 1844, quando l’ingegnere Bartolomeo Grasso si occupò di modificare l’assetto urbanistico del lungomare di Napoli. Il progetto, il cui disegno originale è oggi custodito all’Archivio Storico del Comune di Napoli, mostrava la sistemazione del tratto di spiaggia in cui sfociava proprio il chiavicone, con la creazione di una nuova strada, detta del Chiatamone.
Il canale del chiavicone fu coperto e grazie alla creazione di un arco con due griglie, sfociava direttamente nel mare, in questo modo si poteva consentire anche il deflusso laterale delle acque reflue; il canale terminava con una base a cuneo ed un piccolo sbarcatoio a protezione dello scolo della fogna. Infine al di sopra del condotto, sulla nuova strada, fu costruito un edificio di forma ottagonale che ospitava l’ufficio doganale.
Nell’ultimo trentennio dell’800 furono effettuati i lavori del Risanamento e con la realizzazione di via Partenope e via Caracciolo, la colmata fu riversata direttamente a mare, facendo avanzare la linea di costa ed inglobando il chiavicone, modificandone la base che fu allungata in modo da creare un piccolo attracco per i pescatori.
E’ proprio qui che nasce l’equivoco che consacrerà il chiavicone come “arco borbonico” così come è ancora oggi nominato; durante il XIX secolo, infatti, segnato dalla dominazione Borbonica, il canale fu inteso come parte di un approdo dei pescatori del borgo di Santa Lucia, in realtà il chiavicone era diventato semplicemente uno sbarcatoio di servizio, utilizzato dai pescatori del quartiere Chiaia per lo scarico veloce del pescato del giorno. Il borgo di Santa Lucia aveva già un suo porticciolo, che ad oggi non è più visibile a causa delle continue modifiche urbanistiche della città.
Nonostante il passare dei secoli, “l’arco borbonico” è riuscito a resistere alle intemperie ed allo scorrere del tempo, ma nulla dura per sempre se le giuste accortezze non vengono eseguite.
Il 3 novembre del 2018 l’allora componente del Consiglio direttivo del Museo del Mare di Napoli, Giuseppe Farace, si accorse che la base dell’arco era stato spostato dal continuo infrangersi delle onde e che l’intera struttura poggiava in un equilibrio precario, soltanto su un piccolo masso:” […] All’epoca ho segnalato subito il rischio all’Autorità portuale, al Comune e alla Soprintendenza. I vigili del fuoco hanno transennato l’area, ma poi non è stato fatto più nulla […] “, questo racconta Giuseppe Farace in un intervista per Repubblica.
L’anno successivo l’assessore comunale al Mare, Daniela Villani, tentò di portare in salvo il chiavicone, inserendolo al primo posto tra i lavori da finanziare: “[…] Inviai una relazione al sindaco de Magistris e al capo di gabinetto … si impegnarono a occuparsene. I soldi c’erano, ma non è stato fatto nulla […]”.
Il 2 gennaio a causa di una forte mareggiata dovuta al continuo cambiamento climatico ed anche a causa dell’incuria, il chiavicone crolla inevitabilmente, ormai esausto da anni di troppa incuranza; il 4 gennaio fu fatto un sopralluogo dal soprintendente per l’Archeologia, belle arti e paesaggio Luigi La Rocca, il quale durante un’intervista rilasciata al Mattino, ha affermato che “[…] Nessuno avrebbe mai potuto prevedere una mareggiata così straordinaria… Non è colpa di nessuno. Va sottolineato, però, che da decenni quella struttura era malridotta […]”.
Certamente il clima mite partenopeo felicemente decantato dal Celano nella sua suddetta opera, oggi non è più parte della quotidianità, stiamo pagando infatti le conseguenze del cambiamento climatico, accellerato tra l’altro dal forte inquinamento urbanistico, ma il crollo dell’antico arco non è dovuto soltanto al clima, ma anche e soprattutto alla noncuranza che negli anni si è susseguita nelle menti e nelle coscienze dei soprintendenti. Se si fosse fatto qualcosa in passato, magari l’arco sarebbe ancora lì in piedi, ma visto che è inutile piangere sul latte versato, La Rocca ha pensato di far restaurare l’arco del chiavicone, utilizzando la tecnica dell’anastilosi: sostanzialmente la ricomposizione dell’arco utilizzando le sue stesse componenti. La tecnica dell’anastilosi può essere eseguita se si hanno tutti o la maggior parte del componenti della struttura crollata, La Rocca ha affermato che laddove non sia possibile reperire tutti gli antichi blocchi, si provvederà ad utilizzarne di nuovi.
Piccolo appunto sulla terminologia del Chiatamone
Chiatamone è l’adattamento italiano della voce greca platamón, che indica una roccia marina scavata da grotte: e tale fu l’aspetto, per secoli, dell’attuale strada, finché non vennero eliminate dal viceré don Pedro de Toledo.
Alcuni tradussero platamón in “piacevole ritrovo”, altri invece lo tradussero in platamone, pensando che derivasse dai platani, alberi che furono piantati proprio in quella zona. La plebe ha poi creato le sue varianti, quali: piatamone o sciatamone.
1) – Avvocato e amatore dell’arte napoletana ricordato per i lavori di restauro che fece effettuare nella chiesa di Santa Restituta a Napoli.
Riferimenti:
– Carlo Celano “Notitie del bello, dell’antico et del curiosa della città di Napoli per i signori forestieri” stamp. di G. Raillard, Napoli 1692
– Marina Cappitti “Napoli, crollo dell’arco borbonico: sopralluogo di Soprintendenza e carabinieri”, Repubblica 4 gennaio 2021.
– Paolo Barbuto “Arco borbonico, il primo allarme nel 2018: così sono stati persi due anni”, Il Mattino 4 gennaio 2021.
– Renato De Fusco “L’edificio di via Partenope”, Unina documents
Immagine nominata “arco borbonico lungomare” è di Sergio Valentino
Autore: Chiara Madalese – chiara.madalese@gmail.com
Aggiornamento del 18 febbraio 2021:
NAPOLI. L’arco “borbonico” e il patrimonio a rischio nella città di Napoli.
Il 27 maggio 2020 la Soprintendenza di Napoli impone all’Autorità Portuale la messa in sicurezza e il restauro del cosiddetto “arco borbonico”, prospiciente il lungomare, da presentare in trenta giorni. Da circa due anni che i cittadini segnalavano lo stato di equilibrio precario di questa testimonianza architettonica dell’antico molo. La messa in sicurezza avverrà soltanto a settembre 2020.
L’arco resiste alla prima mareggiata, avvenuta a fine dicembre scorso, ma purtroppo non a quella del successivo 2 gennaio. Ne consegue un rimpallo della responsabilità tra le autorità competenti, che avrebbero potuto impedirne la rovina. Di questi aspetti e delle possibili azioni da intraprendere, per evitare futuri crolli in città – l’ultimo, risalente al 20 gennaio, ha interessato la chiesa del Santo Rosario a piazza Cavour – si è dibattuto nel corso di un recente webinar promosso dall’Associazione Culturale Musae, che si occupa di tutela, promozione, recupero e valorizzazione dei beni di interesse artistico, storico, culturale e paesaggistico. A moderarlo il dott. Francesco Carignani, Consigliere della Municipalità 1 di Napoli, con relatori i professori Renata Picone e Alessandro Castagnaro del Dipartimento di Architettura di Napoli.
Autore: Carlo De Cristofaro
Fonte: www.artribune.com, 18 feb 2021