Sulla A1, poco prima (o poco dopo, dipende da dove si arriva) della barriera di Caserta Nord, c’è l’uscita di Santa Maria Capua Vetere, dalla quale ci si immette subito in una rotonda. Qui, occorre prendere la prima uscita, andando a destra, passando sulla SP4. Questa strada, che gira intorno al rilievo chiamato Monte Tifata (602 m), attraversa il borgo di S. Angelo in Formis, frazione di Capua, noto per la presenza di una celebre abbazia benedettina in stile romanico e gotico, edificata nel VI secolo d.C. sulle rovine di un più antico tempio pagano e rifatta più volte nei secoli successivi.
Occorre però saltare l’indicazione sulla destra che conduce all’abbazia e proseguire dritto fino ad uscire dall’abitato, continuando a girare intorno alla collina finché sulla sinistra compare il primo dei ponti che passano sul Volturno, detto “Ponte di Annibale” e svoltare in modo da attraversarlo. Dopo il ponte, resistendo alla tentazione di svoltare a sinistra per andare verso la già visibile Triflisco, frazione di Bellona, in cerca della sorgente di acque minerali che si trova davanti al laghetto antistante la locanda “Al vecchio mulino”, si deve svoltare a destra, prendendo la SP333.
Questa va percorsa, per un discreto tratto, fino alla prima rotonda, nella quale occorre prendere la terza uscita (andando quindi, di fatto, a sinistra), immettendosi così nella SP107. È un tratto di strada molto suggestivo, circondato da un panorama che ricorda quello della campagna toscana, e si inerpica su un’altra collina, chiamata Colle Monticelli, appartenente al massiccio dei Monti Trebulani (la cui principale cima, il Monte Maggiore, raggiunge i 1037 m), attraversando l’abitato del comune di Pontelatone, noto come “il paese del vino” per la “Festa dell’uva e del vino” che vi si tiene ogni anno nel mese di settembre, in cui è possibile acquistare bottiglie di Pallagrello, Piedirosso, Falanghina, Aglianico e soprattutto Casavecchia direttamente dai produttori, a condizioni molto favorevoli.
Superato l’abitato principale di Pontelatone, occorre saltare la svolta a sinistra per Formicola (dalla quale, in pochi minuti, si può arrivare al suggestivo santuario di Santa Maria del Castello, risalente al XII secolo) e rimanere sulla SP107 attraversando la frazione di Treglia, a sua volta famosa per la “sagra della castagna ufarella” (una varietà locale particolarmente gustosa e dal versatile uso culinario) che si tiene a ottobre, fino a quando, poco dopo essere usciti dall’abitato, compaiono delle rovine in corrispondenza di una larga strada laterale sulla sinistra, diretta alla località Le Campole, che si apre in una spianata (chiamata “La Corte”).
Chi abbia avuto la pazienza di percorrere tutta la strada senza lasciarsi distrarre (dall’uscita dell’autostrada, se non si incontra traffico, ci vogliono circa 20-25 minuti: è bene non correre, anche perché lungo la strada ci sono degli autovelox che colpiscono senza pietà), sarà così arrivato a Trebula Balliensis (o Baliniensis), un sito archeologico tanto importante quanto sconosciuto al di fuori della zona in cui si trova.
Cominciamo con il dire che questo sito è stato scavato solo in parte, sia per la scarsità di fondi (praticamente, gran parte dei lavori è stata svolta da volontari, come avviene quasi sempre nel Sud Italia), sia perché molta della sua area si trova al di sotto di terreni agricoli privati che dovrebbero essere espropriati per proseguire, dettaglio che comporta la necessità di ulteriori notevoli costi nonché di complicazioni burocratiche. Ma già quel poco che si è riusciti a portare alla luce finora rappresenta qualcosa di estremamente significativo non solo dal punto di vista archeologico, ma soprattutto da quello storico.
La storia di Trebula Balliensis
Trebula è una città preromana, le cui tracce più antiche sono datate intorno al IX secolo a.C., probabilmente anzi ancora più vecchia. Fu fondata dagli Osci, uno dei popoli di origine indoeuropea che si stabilirono nell’Italia del Sud a partire dal XII secolo a.C. Forse all’inizio fu una semplice struttura difensiva costruita per tenere sotto controllo la valle sottostante, e si trasformò gradualmente in città quando apparve chiaro che gli abitanti della zona sarebbero stati più sicuri all’interno di una cerchia difensiva.
Rimase osca fino a circa il VI secolo a. C., quando passò (non si sa bene come, probabilmente conquistata) ai Caudini, la tribù di stirpe sannita che fu maggiormente soggetta all’influenza culturale ellenica (i Sanniti, per tradizione, discenderebbero per migrazione dai Sabini del Lazio, a loro volta discendenti, sempre per migrazione, dagli Umbri dell’Appennino centrale, una delle prime popolazioni di origine indoeuropea la cui presenza è riscontrabile in Italia, ossia da circa il XV secolo a.C. o addirittura prima).
I Caudini, dopo la sconfitta di Pirro a Maleventum (odierna Benevento) nel 272 a. C., furono costretti, volenti o nolenti, ad allearsi con i Romani, e così Trebula divenne “civitas foederata”. Questa alleanza andava però stretta agli abitanti della città, che qualche decennio dopo si schierarono dalla parte di Annibale durante la Seconda Guerra Punica. Dopo poco, però, nel 215 a. C., la città fu conquistata dai Romani, comandati da Quinto Fabio Massimo. Seguì una lunga fase di assoggettamento che si concluse con il riconoscimento della dignità di “municipium”, ossia di comunità cittadina legata a Roma e con proprie istituzioni ma priva dei diritti politici riservati ai cittadini romani. Nel 90 a. C., tuttavia, dopo la guerra sociale, tutti gli abitanti della penisola ricevettero la cittadinanza romana. Trebula divenne allora un municipium retto da un collegio di “quattuorviri”, ossia quattro magistrati elettivi. Successivamente, nell’epoca tardo-imperiale, i magistrati scesero a due (duoviri).
Va sottolineato come ricostruire con precisione la Storia di Trebula sia difficilissimo, perché né Osci né Sanniti hanno lasciato documenti scritti di qualunque tipo: tutto ciò che sappiamo, anche del lontano passato, lo sappiamo da fonti e iscrizioni romane.
Non si sa esattamente quando il sito si sia spopolato. Non esistono documenti posteriori alla fine del V secolo d. C., per cui si suppone che a quel punto la comunità di Trebula si fosse già dispersa. Una delle più accreditate ipotesi per spiegare questa dispersione chiama in causa le conseguenze di un terremoto che avrebbe colpito l’Italia del Sud proprio durante il V secolo. I tanti crolli e i pesanti danni subiti da Trebula, la cui cinta muraria era composta da mura megalitiche (ossia fatte di pietre assemblate solo per effetto del proprio peso, senza alcun collante, e quindi particolarmente vulnerabili ai sismi), nonché molto vicina all’epicentro, avrebbero dato inizio a un periodo di rapida decadenza della città, che sarebbe finita presto abbandonata dagli abitanti. Va notato come il periodo coincida con la fine dell’Impero Romano d’Occidente sotto i colpi delle invasioni barbariche, ragione per cui il terremoto avrebbe solo dato il colpo di grazia a una situazione già resa difficilissima da problemi preesistenti.
Le rovine che si osservano al momento dell’arrivo sono quanto rimane delle Terme Romane (è proprio alla loro presenza che si riferisce l’appellativo “Balliensis”), delle quali sono rimaste (sia pure scoperchiate) parecchie stanze, anche se non è più riconoscibile la funzione di ognuna di esse, per una superficie totale di circa 150 mq. Poiché furono scoperte nel 1976, durante i lavori per l’apertura di una strada e non ne fu segnalata immediatamente la presenza alla Soprintendenza per i Beni Archeologici (un malcostume purtroppo molto diffuso), una parte del sito finì demolita o danneggiata e un’altra coperta dall’asfalto.
Si è dovuto aspettare il 2006 per vedere pubblicato uno studio scientifico su di esso, opera dell’archeologo Claudio Calastri che gli dedicò la sua tesi di dottorato, in seguito al quale il sito ha subito alcuni necessari interventi di manutenzione. L’analisi, oltre a una quantità di importanti dettagli tecnici, ha svelato che le terme attualmente visibili sono il risultato di almeno due fasi edilizie ben distinte: ossia, che le prime terme subirono a un certo punto una importante ristrutturazione. Probabilmente le prime sono quelle di cui parla Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) e le seconde risalgono al periodo dell’imperatore Costantino (III secolo d.C.).
Queste terme erano alimentate da due diverse fonti, tuttora attive, che si trovano sulle pendici del Monte Friento, un altro rilievo (770 m) dei Monti Trebulani, la cui area è suddivisa tra il comune di Pontelatone e quello limitrofo di Castel di Sasso: le sorgenti Chorcicon (oggi Corcica) e Cersicon (oggi Ciesco), da cui partiva un acquedotto che, in armonia con i principi dell’architettura vitruviana, rifornivano un Castellum aquae, ossia un grande serbatoio di raccolta, addossato o vicino alle mura cittadine, che riforniva tutta la città, terme incluse.
Proseguendo lungo la strada per Le Campole, dopo poche decine di metri, sulla sinistra, appaiono gli imponenti resti della cinta muraria (circa 3 m di altezza), che rappresentano quanto è oggi visibile di un complesso originariamente lungo oltre 2 km, che circoscriveva interamente l’altura del Colle Monticelli (477 m), dalla quale sono dominate. Qui si trovava l’ingresso alla città bassa, riconoscibile facilmente dalla presenza della porta e della strada lastricata che la attraversa (quanto si vede adesso è il braccio occidentale di quel tratto, essendo andato distrutto per il terremoto e la successiva erosione quello orientale). La porta megalitica, portata in superficie da uno scavo effettuato nel 2007, grazie a un progetto finanziato dalla Ue e diretto da Domenico Caiazza (un avvocato appassionato di archeologia), appartiene a un tipo molto particolare, detto “a tenaglia esterna e corridoio interno”, e rappresenta probabilmente la più grande porta europea ancora esistente di questa tipologia. Intorno a essa, da ambo i lati, le mura presentano delle visibili postierle, ossia delle piccole porte che potevano fungere sia da punti di osservazione per le guardie sia per attaccare lateralmente chi stesse cercando di forzare la porta principale.
Ci sono altri tratti di mura, che raggiungono anche i 4-5 m di altezza, lungo il percorso che sale alla collina, ma sono più difficili da raggiungere. Tutto ciò che resta della cinta muraria fu già oggetto di alcuni studi da parte del grande archeologo ciociaro (ma attivo prevalentemente nei siti campani, e per un certo periodo anche in Grecia) Amedeo Maiuri (1886-1963), che le datò al VI secolo a. C. circa. Tuttavia, studi più recenti hanno ipotizzato che risalgano al IV-III secolo. Appare certo, comunque, che esse siano opera dei Sanniti (le tecniche con cui sono state realizzate sono tipiche della Magna Grecia, che influenzò molto la cultura dei Caudini) e che i Romani, in seguito, non ne stravolsero mai l’impianto.
All’interno delle mura, sono visibili alcune strutture che introducono al forum, ossia alla piazza principale, anch’essi portati in superficie e studiati nel corso dei lavori del 2007. Tra le tante cose emerse da questi scavi, va sottolineata la presenza di una tomba a camera semi-ipogea, che forse coincide con un’analoga struttura già aperta (e saccheggiata) tra il 1758 e il 1766 dall’ambasciatore inglese alla corte borbonica William Hamilton (il marito della celebre Emma amante dell’ammiraglio Nelson), appassionato cultore di antichità classiche, che è stato il primo in età moderna a interessarsi del sito di Trebula. Più avanti, ci sono anche i resti frammentari ma evidenti di un teatro romano, in gran parte ancora interrato e solo parzialmente scavato, alla fine del XIX secolo, dall’aristocratico Domenico Carafa. Non distante, sono state rinvenute anche diverse tombe di epoca sannitica (dovevano essere molte di più, perché nell’area della Campania i tombaroli sono stati sempre molto attivi).
Sempre ancora interrata è quasi tutta l’Acropoli, che si trova sulla cima del Colle Monticelli.
In poche parole, Trebula è un sito ancora quasi tutto da scoprire. Dopo la conclusione del progetto che portò alla scoperta della porta megalitica, i lavori non hanno praticamente più ricevuto alcun finanziamento e ci si è limitati alla loro manutenzione, peraltro ridotta ai minimi termini, da parte di qualche volontario.
Non a caso, la visita in estate del sito può essere resa difficile dalla presenza di una fitta e alta vegetazione erbacea infestante che lo circonda quasi per intero. In un certo senso, il suo stato attuale rappresenta la fotografia dei beni archeologici italiani in questo momento: un tesoro inestimabile che tutto il mondo ci invidia, abbandonato al proprio destino e considerato spesso un problema (quando la scoperta di un sito archeologico interferisce con la costruzione di un qualsiasi edificio, fatto che nel Sud Italia avviene spessissimo), che potrebbe diventare un importante volano di sviluppo economico di qualità, basato sul turismo culturale, ma riceve solo raramente qualche finanziamento, peraltro del tutto insufficiente. Se è vero che in Italia la cultura in generale gode di pochissima considerazione, l’archeologia ne gode ancora meno di quasi tutti gli altri settori.
Autore: Roberto Cocchis.
Fonte: www.vanillamagazine.it, 6 giu 2019