Nel sito sono ben visibili i resti delle offerte ai defunti: un osso di Prolagus sardus.
Lo hanno battezzato ‘Amsicora‘ perché è tornato alla luce del sole dopo circa 9000 anni di buio e silenzio sotto terra. Amsicora perché ”è il messaggero del passato che ci rivelerà la storia delle popolazioni più antiche della Sardegna”.
Che la scoperta sia di eccezionale valore scientifico internazionale lo dimostrano gli anni: 9000 si suppone e, se la datazione verrà confermata dagli esami scientifici, si dovrà riscrivere un intero capitolo della preistoria: quello del più antico popolamento della Sardegna.
I resti di Amsicora sarebbero infatti il ”più antico ritrovamento umano in Sardegna nel periodo di transizione tra il Neolitico e il Mesolitico”, ovvero tra 10mila e 8200 anni fa. E’ la professoressa Rita Melis, geoarcheologa del Dipartimento di Scienze della terra dell’Università di Cagliari, che racconta all’Adnkronos, la scoperta dei resti umani fatta venerdì scorso a Su Pistoccu, nella marina di Arbus, a pochi metri dalla battigia della Costa Verde, nel sud-ovest della Sardegna.
Una campagna di scavi breve, resa possibile grazie ai contributi dalla Provincia del Medio Campidano, da quelli dell’Università di Cagliari e della Sapienza di Roma e dalla tenacia di Rita Melis e della collega Margherita Mussi del Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università la Sapienza di Roma, che da più di 15 anni portano avanti una ricerca sul più antico popolamento della Sardegna, su autorizzazione del ministero dei Beni Culturali e con la collaborazione della Sopraintendenza dei Beni Archeologici di Cagliari.
Il sito era già noto agli archeologi perché nel 1985 alcuni ragazzi che giocavano sulla spiaggia trovarono, in una parete di arenaria franata dopo un temporale, dei resti umani. Fu allora che il Gruppo Archeologico Neapolis di Guspini, in provincia del Medio Campidano, recuperò lo scheletro di un uomo di circa 40 anni, che battezzarono Beniamino, conservato poi in un teca presso la loro sede di Guspini. Beniamino era interamente ricoperto di ocra rossa, accompagnato da una grande conchiglia di Trion, successivamente restaurata a cura del laboratorio della Soprintendenza di Li Punti (Ss), e da frammenti di ossa di Prolagus sardus, un piccolo mammifero estinto. Il prelievo ‘poco scientifico’ e la conservazione successiva di Beniamino fecero danni irreparabili: ”Non è stato possibile datarlo con certezza al C14 – spiega Rita Melis – perché privo di collagene”. Nel 2002 Vincenzo Santoni, allora Soprintendente ai Beni culturali di Cagliari, diede incarico alle due ricercatrici di studiare il sito.
La campagna di scavo, nel 2007 permise il recupero di altri resti umani concrezionati che furono datati a circa 8400 anni fa presso il laboratorio Nsf dell’Università di Tucson, Arizona. Questa età fu confermata anche dalla datazione dei livelli carboniosi presenti nella stratigrafia del sito. Quest’anno con l’autorizzazione del Ministero dei beni culturali e della Sovrintendenza di Cagliari e il contributo della Provincia del Medio Campidano le due scienziate, Melis e Mussi, hanno iniziato una campagna in primavera con gli allievi della Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici dell’Università di Cagliari e un’altra questa settimana, aiutate da Giorgio Orrù, del Gruppo Archeologico Neapolis. ”Da subito, dopo aver ritrovato le conchiglie di un corredo funerario abbiamo capito che c’era qualcosa di importante – spiega Melis – e abbiamo indirizzato le ricerche in un punto ben preciso. E’ stata così messa alla luce la parte di uno scheletro”.
”Dobbiamo valutare – spiega Margherita Mussi – se si tratti di una sepoltura vera e propria oppure di una deposizione funebre di un individuo lasciato in una grotta con una serie di offerte: testimonianza queste di un rito di cui si hanno evidenze nella preistoria più antica”.
Questo studio rientra nell’ambito delle ricerche che da anni le due studiose stanno portando avanti sulle ricostruzioni paleoambientale e climatico della Sardegna e sul popolamento delle isole del Mediterraneo durante l’Olocene antico. E’ questo un periodo di improvvisi cambiamenti climatici che influenzarono la vita delle popolazioni di allora. ”Questa scoperta – prosegue Melis – ha una rilevanza internazionale perché permette di comprendere un aspetto ancora poco conosciuto del primo popolamento della Sardegna: un’isola lontana dal continente che, diversamente dalla Sicilia, non è facilmente raggiungibile e presentava una fauna selvatica caratterizzata da pochissime specie molto particolari”.
”Ora verrà portato avanti uno studio multidisciplinare – continua Melis – al fine di acquisire ulteriori informazioni sia sul contesto paleoambiantale che sui rapporti diretti e indiretti con le popolazioni coeve del territorio europeo. Ad esempio l’analisi degli isotopi stabili delle ossa, peraltro molto costose, così come la ricerca del paleo Dna, permetteranno di sapere cosa mangiavano, da dove venivano e come si spostavano”.
Lo hanno battezzato ‘Amsicora‘ perché è tornato alla luce del sole dopo circa 9000 anni di buio e silenzio sotto terra. Amsicora perché ”è il messaggero del passato che ci rivelerà la storia delle popolazioni più antiche della Sardegna”.
Che la scoperta sia di eccezionale valore scientifico internazionale lo dimostrano gli anni: 9000 si suppone e, se la datazione verrà confermata dagli esami scientifici, si dovrà riscrivere un intero capitolo della preistoria: quello del più antico popolamento della Sardegna.
I resti di Amsicora sarebbero infatti il ”più antico ritrovamento umano in Sardegna nel periodo di transizione tra il Neolitico e il Mesolitico”, ovvero tra 10mila e 8200 anni fa. E’ la professoressa Rita Melis, geoarcheologa del Dipartimento di Scienze della terra dell’Università di Cagliari, che racconta all’Adnkronos, la scoperta dei resti umani fatta venerdì scorso a Su Pistoccu, nella marina di Arbus, a pochi metri dalla battigia della Costa Verde, nel sud-ovest della Sardegna.
Una campagna di scavi breve, resa possibile grazie ai contributi dalla Provincia del Medio Campidano, da quelli dell’Università di Cagliari e della Sapienza di Roma e dalla tenacia di Rita Melis e della collega Margherita Mussi del Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università la Sapienza di Roma, che da più di 15 anni portano avanti una ricerca sul più antico popolamento della Sardegna, su autorizzazione del ministero dei Beni Culturali e con la collaborazione della Sopraintendenza dei Beni Archeologici di Cagliari.
Il sito era già noto agli archeologi perché nel 1985 alcuni ragazzi che giocavano sulla spiaggia trovarono, in una parete di arenaria franata dopo un temporale, dei resti umani. Fu allora che il Gruppo Archeologico Neapolis di Guspini, in provincia del Medio Campidano, recuperò lo scheletro di un uomo di circa 40 anni, che battezzarono Beniamino, conservato poi in un teca presso la loro sede di Guspini. Beniamino era interamente ricoperto di ocra rossa, accompagnato da una grande conchiglia di Trion, successivamente restaurata a cura del laboratorio della Soprintendenza di Li Punti (Ss), e da frammenti di ossa di Prolagus sardus, un piccolo mammifero estinto. Il prelievo ‘poco scientifico’ e la conservazione successiva di Beniamino fecero danni irreparabili: ”Non è stato possibile datarlo con certezza al C14 – spiega Rita Melis – perché privo di collagene”. Nel 2002 Vincenzo Santoni, allora Soprintendente ai Beni culturali di Cagliari, diede incarico alle due ricercatrici di studiare il sito.
La campagna di scavo, nel 2007 permise il recupero di altri resti umani concrezionati che furono datati a circa 8400 anni fa presso il laboratorio Nsf dell’Università di Tucson, Arizona. Questa età fu confermata anche dalla datazione dei livelli carboniosi presenti nella stratigrafia del sito. Quest’anno con l’autorizzazione del Ministero dei beni culturali e della Sovrintendenza di Cagliari e il contributo della Provincia del Medio Campidano le due scienziate, Melis e Mussi, hanno iniziato una campagna in primavera con gli allievi della Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici dell’Università di Cagliari e un’altra questa settimana, aiutate da Giorgio Orrù, del Gruppo Archeologico Neapolis. ”Da subito, dopo aver ritrovato le conchiglie di un corredo funerario abbiamo capito che c’era qualcosa di importante – spiega Melis – e abbiamo indirizzato le ricerche in un punto ben preciso. E’ stata così messa alla luce la parte di uno scheletro”.
”Dobbiamo valutare – spiega Margherita Mussi – se si tratti di una sepoltura vera e propria oppure di una deposizione funebre di un individuo lasciato in una grotta con una serie di offerte: testimonianza queste di un rito di cui si hanno evidenze nella preistoria più antica”.
Questo studio rientra nell’ambito delle ricerche che da anni le due studiose stanno portando avanti sulle ricostruzioni paleoambientale e climatico della Sardegna e sul popolamento delle isole del Mediterraneo durante l’Olocene antico. E’ questo un periodo di improvvisi cambiamenti climatici che influenzarono la vita delle popolazioni di allora. ”Questa scoperta – prosegue Melis – ha una rilevanza internazionale perché permette di comprendere un aspetto ancora poco conosciuto del primo popolamento della Sardegna: un’isola lontana dal continente che, diversamente dalla Sicilia, non è facilmente raggiungibile e presentava una fauna selvatica caratterizzata da pochissime specie molto particolari”.
”Ora verrà portato avanti uno studio multidisciplinare – continua Melis – al fine di acquisire ulteriori informazioni sia sul contesto paleoambiantale che sui rapporti diretti e indiretti con le popolazioni coeve del territorio europeo. Ad esempio l’analisi degli isotopi stabili delle ossa, peraltro molto costose, così come la ricerca del paleo Dna, permetteranno di sapere cosa mangiavano, da dove venivano e come si spostavano”.
Fonte: Adnkronos.com, 09/10/2011