Di tanto in tanto spuntano fuori, si fanno vedere. Affidando alla storia la loro presenza discreta celata per millenni sotto la sabbia, sotto il fango, imprigionata tra i “tassoni” della Posidonia oceanica. Se non arrivano prima i tombaroli subacquei a violare i loro segreti e depredarli (e questo avviene sin troppo spesso), la sorte della scoperta spetta a persone di giudizio. Sono i sub più sensibili che scelgono la denuncia per raccontare la loro scoperta, l’incontro sott’acqua con un’anfora, un legno antico, un relitto.
C’è una terza ipotesi sulla strada che porta dritta al passato, ed è quella degli archeosub che il patrimonio archeologico lo cercano e spesso lo trovano. Con l’ambizione, non sempre fattibile, di poterlo indagare a fondo, studiare, restituirgli la dignità di nave da guerra o da trasporto che un giorno qualunque di migliaia di anni fa colò a picco sparendo per sempre. Per duemila e passa anni, anche di più.
Golfo di Cagliari, o se si vuole Golfo degli Angeli. Dicono che sia un enorme cimitero di navi. E forse lo è davvero visti almeno i relitti conosciuti, gli scafi indagati dagli esperti della Soprintendenza archeologica che attraverso un simbolo, un particolare costruttivo, un oggetto di bordo recuperato tra ordinate, chiglia e legni divorati dalle terenidi, riescono a ricostruire (o quanto meno ipotizzare) la “carta d’identità” dell’imbarcazione. Leggere nel libro di bordo mai scritto dal comandante da dove proveniva e dove magari andava quella nave carica di anfore, di cannoni, di umanità.
Sulla strada maestra della valorizzazione del patrimonio storico subacqueo, soldi ce ne sono pochi. E chissà, forse anche poca volontà per un tesoro difficile da recuperare, altrettanto difficile da esporre se non a costi elevati.
Porto di Cagliari, lo specchio d’acqua è quello tra Su Siccu e il molo Ichnusa. Lo scafo che riposa sul fondale melmoso ha parecchi anni. Epoca tardo medioevale risalente al XIV-XV secolo. Nave basca. Dicono così i primi studi fatti dall’équipe della Soprintendenza guidata da Ignazio Sanna. Un unicum, per la storia archeologica dell’Isola, un rinvenimento rarissimo se rapportato all’intero Mediterraneo dove solo altri due analoghi relitti sono stati individuati. A svelare il mistero è l’osservazione sulla tecnica costruttiva a clincker (con le tavole di rivestimento della carena parzialmente sovrapposte), tipica dei cantieri navali nordici, in uso anche nel nord della Spagna. Proprio da lì, l’imbarcazione sarebbe partita, puntando la prua verso la Sardegna. Davanti a Cagliari, 800 metri dalla vecchia linea di costa e 200 dall’attuale, concluse la sua traversata affondando.
Una tempesta? Forse. I segni scuri sui legni osservati dagli archeologi spifferano che quel drammatico giorno a bordo si scatenò un incendio. È questo il relitto che si porta dietro un mistero davvero grande: è lei, la nave che trasportava la cassa con la madonna di Bonaria recuperata il 24 aprile del 1370 dopo essere finita sulla battigia? La verità resta sott’acqua. Ben altre indagini ci vorrebbero per riportarla a galla.
Nave tra le tante. Nel porto davanti a Cagliari (che gli archeologi si affrettano a precisare non può e non deve essere inteso come l’antica marina cagliaritana), di relitti noti ce ne sono parecchi. Gli hanno dato un nome-simbolo, gli archeosub, per identificarli sulla mappa. Sabaudo 1, relitto romani del I° secolo avanti Cristo. Sabaudo 2, relitto di epoca romana del IV secolo avanti Cristo. Sabaudo 3, relitto romano del II secolo a. C. E poi ancora l’elenco degli Ichnusa 1, 2, 3, 4 e 5. Quest’ultimo classificato come resti di una nave bizantina del VI-VII secolo dopo Cristo. In uno di questi siti, all’esterno del molo Ichnusa, i sommozzatori guidati da Sanna fecero una scoperta entusiasmante. Di quelle che fanno venir voglia, tra tante difficoltà, di andare avanti. I sesterzi (27 in tutto). Formavano un gruzzolo. Il loro contenitore, forse un sacchetto di pelle, il tempo se l’era portato via, lasciando ai posteri i soldi coniati con una lega di rame e zinco (aurichalcum, la chiamavano i latini) e riportanti le effigi degli imperatori Adriano, Traiano, Vespasiano.
Fuori dal porto il miracolo non si spegne. Davanti a Frutti d’Oro, litorale di Capoterra, giace un relitto punico del II secolo avanti Cristo. È qui che sono state recuperate anfore a siluro. Mentre materiali risalenti a un relitto fenicio del II secolo sono riemersi nell’area del Porto canale, durante le prospezioni subacquee.
A Sant’Elia affondò nel 1600 una nave inglese, ma davanti alla borgata si trovano anche due relitti romani di epoca repubblicana e imperiale. Mentre al Poetto gli archeologi della Soprintendenza hanno individuato altri manufatti di un relitto fenicio.
Insomma, un interminabile cimitero di imbarcazioni di diversi periodi storici che danno precise indicazioni su quanto la rotta verso la Sardegna fosse sfruttata da diversi popoli. Relitti che condividono gli spazi con i resti di navi ben più recenti. Navi colate a picco durante la guerra (come l’Entella, l’Isonzo e il Loredan di Torre delle Stelle), il Romagna davanti al Poetto-Margine Rosso finito su una delle mine dello sbarramento subacqueo, la motonave Dino di Teulada affondato per una tempesta e oggi adagiato su un fondale di sabbia di 24 metri a porto Zafferano.
Autore: Andrea Piras
Fonte: www.unionesarda.it, 17 gen 2020