Dal 28 ottobre 1922, giorno della marcia su Roma, al 25 luglio 1943, in cui Grandi durante la riunione del Gran Consiglio del fascismo presentò un ordine del giorno che suonava come un atto di sfiducia nei confronti di Mussolini riscuotendo la maggioranza dei voti, il regime del duce detenne il potere e fu al governo dell’Italia.
Aldilà del colore politico, delle ideologie, rimane la storia, una storia che non è solo battaglie, guerre e trattati, una storia che appartiene agli uomini, alla quotidianità di chi quei giorni li ha vissuti e respirati, e a noi che ne ereditiamo il segno.
Il fascismo ha lasciato un’impronta tra le nostre case, nelle nostre strade, nella città di Roma, che Mussolini ha voluto trasformata nel luogo simbolo dell’ideale gemellaggio che egli auspicava si potesse stabilire tra la nuova Roma e l’antica Roma dei Cesari.
A questo ideale furono immolati interi quartieri con i loro palazzi e la loro fitta tessitura di piccole strade; si persero scorci pittoreschi; vennero distrutti e caddero nell’oblio i monumenti minori che pure arricchivano il patrimonio artistico di questa città secolare. Altro fu costruito in loro luogo e, senza giudicare il valore artistico di quanto realizzato, si può senza dubbio affermare che il volto dell’Urbe venne snaturato per mezzo della cancellazione di quindici secoli di arte, vita e storia, della demolizione della verità cittadina.
Coltivando il mito della Roma imperiale, il fascismo vagheggiava una città utopica, in parte riportata alla luce estraendone i resti dalle viscere di quella terra bagnata dal Tevere, in parte costruita ex-novo, con uno stile che si ispirava all’età classica ma che conosceva un afflato di ampollosa retorica che all’arte antica era estraneo.
Ogni manifestazione di arte successiva all’epoca della romanità classica non veniva ritenuta degna di essere preservata e conservata, era considerata espungibile dal tessuto urbanistico e perciò sacrificabile al culto, allo scavo e alla costruzione dell’unica vera Roma autentica.
Il fascismo si adoperò tanto per la capitale ma allo stesso tempo ne dimenticò le esigenze e i problemi, asservì la città al compito di dare testimonianza della sua magnificente grandezza, ogni progetto fu subordinato a questa logica di potenza.
Il Bernini circondando San Pietro del suo imponente colonnato, aveva pensato ad un effetto scenografico di particolare interesse per il passante che, facendosi avanti per le anguste strade di Borgo, sarebbe ad un certo punto capitato davanti alla maestosità imperante della piazza antecedente l’imponente basilica e si sarebbe trovato a contemplarla con il fiato sospeso. Via della Conciliazione sorge dunque, nella sua ampiezza, laddove prima di Mussolini si trovava un intero quartiere, una fila di palazzi e case di epoca medievale, che Bernini aveva sapientemente sfruttato ai fini di ottenere lo spaesamento e l’ammirazione del turista o del visitatore.
Non si può comunque tacere che Roma e l’intero Lazio trassero dei benefici da questo stato di cose: il territorio dell’Italia centrale fu bonificato e i nuovi spazi furono messi nelle condizioni di accogliere nuove iniziative, agricole o industriali. Si realizzò un aeroporto di enorme importanza, l’aereoporto del Littorio, che fu poi circondato da una pista per gare motociclistiche e automobilistiche. Le condizioni igieniche della città migliorarono. Sotto il punto di vista scientifico si moltiplicarono i convegni in prospettiva internazionale che videro nella città del Colosseo il cuore del loro dibattito.
Quel che soprattutto importa ai fini del nostro discorso sono però gli importanti ritrovamenti che affiorarono nel territorio laziale ad opera delle campagne di scavo e di ricerca promosse dal duce.
Nel marzo 1929 dalle acque del lago di Nemi affiorava una prima nave di 73 m di lunghezza x 24 di larghezza, seguita nell’agosto 1931 da una seconda imbarcazione di poco più piccola che misurava m 71 x 20. Entrambi i reperti, costruiti in robusto fasciame di pino erano di notevole interesse archeologico ancor più per il fatto che le piccole dimensioni del lago in cui erano state ritrovate poco si confacevano alla maestosità di queste imbarcazioni a chiglia piatta rivestite esternamente di lana catramata e lamiere di piombo, fornite di sovrastrutture murarie, ed internamente ricche di opere in bronzo e terracotta, decorate con protomi leonine, erme bifronti a costituire la balaustra, mosaicate nei loro pavimenti, ospitanti ambienti simili a quelli presenti nelle ville patrizie come terme e templi. Ciò contribuì ad creare un alone di mistero attorno al rinvenimento.
Le navi, volute da Caligola e attribuite con certezza al suo breve periodo di regno (37-41 d.C.) per mezzo del rinvenimento sulle cosiddette fistulae acquariae del nome del giovane terzo figlio di Germanico, furono volute da questi per potervi trascorrere i suoi otia e per celebrarvi riti e feste in onore di Diana, dea a cui erano consacrati quei boschi e quelle terre.
Vista la poca durata dell’impero di Caligola, assassinato per mano di Cassio Cherea, e considerata anche la damnatio memoriae che il suo nome subì, non sorprende che, nonostante la magnificenza delle due navi, nessun commentatore dell’epoca ne ricordi i fasti e che nessuna notizia in merito ci giunga dalla traditio.
Se già dal Medioevo abbiamo notizia di ritrovamenti di reperti antichi affioranti dalle acque del lago, il primo recupero programmatico e non casuale si ebbe per volontà di Leon Battista Alberti nell’anno 1446, con l’immersione di alcuni esperti nuotatori genovesi che, calatisi in apnea, riportarono alla luce un intero pezzo di fasciame staccato da una delle due barche danneggiandola quindi in parte.
Un secondo pur infruttuoso tentativo di recupero fu portato avanti per volontà di Alessandro de’ Medici e su coordinamento dell’architetto Francesco De Marchi; ne seguì un terzo condotto nel 1827 dal cavaliere Annesso Fusconi che portò all’affioramento di due spezzoni del pavimento, di mosaici vari, alcuni frammenti di marmo e di colonne bronzee.
Nell’anno 1895, promossa dal Ministero della Pubblica Istruzione, si ha la penultima tappa del travagliato iter di lavori di recupero prima del successo mussoliniano. Ad affiorare questa volta furono, tra le altre cose, delle protomi con fattezze feline, laterizi, mosaici invetriati, tubi di piombo, tegole, la testa di una medusa, ghiere di timoni.
Il buon esito dell’operazione si raggiunse solo con i lavori di prosciugamento del lago eseguiti tra il 1928 e il 1932 quando le navi furono trascinate sulla riva e collocate in due grandi edifici definiti Museo delle Navi Romane e ultimati nel 1935 appositamente per ospitarle.
Purtroppo, quasi che non fossero destinate a salvarsi dall’oblio che per secoli e millenni le aveva avvolte, come colpite da una maledizione, furono incendiate, con ogni probabilità deliberatamente, nella notte tra il 31 maggio e il 1 giugno 1944 da alcune truppe tedesche appostate nelle vicinanze con una batteria e così andò nuovamente perso l’unico documento ben conservato della mirabile tecnica navale romana.
Tra gli altri ritrovamenti degni di nota appartenenti al periodo fascista non possiamo non ricordare la ricerca dei frammenti dell’Ara Pacis e la sua ricostruzione.
L’altare della Pace fu costruito da Augusto, il primo imperatore, tra il 13 e il 9 a.C. per celebrare l’apertura di un nuovo periodo di quiete che avrebbe dovuto mettere fine alle guerre civili di cui Roma era stata a lungo protagonista.
Quest’Ara decorata con bassorilievi di pregevole fattura s’inserisce nel programma di edilizia monumentale che Ottaviano aveva varato e che trasformò Roma da una città di legno e mattoni in una città di marmo.
Per mezzo dell’oculato uso del patrimonio delle terre italiche e di quello delle province da lui amministrate, in particolare delle ricchezze provenienti dalla prospera terra d’Egitto, furono restaurati ben ottantadue templi, venne avviata la sistemazione monumentale del Campo Marzio con la costruzione del Teatro di Marcello e del Pantheon, fu completata la Basilica Giulia e portata avanti la costruzione del Foro di Augusto inaugurato nel 2 a.C. ma iniziato fin dal 42 con il Tempio di Marte Ultore.
L’Ara Pacis Augustae, simbolo di questo fiorente periodo, è istoriata nel suo ingresso principale con temi che si rifanno alle leggendarie origini dell’Urbe; nell’ingresso posteriore troviamo invece effigiata la dea terrestre Tellus che, in tale contesto, secondo molti critici, potrebbe stare a significare anche l’Italia.
I pannelli esterni sono dedicati alla solenne processione condotta in onore delle gloriose vittorie riportate in Spagna e in Gallia dal divo imperatore, cui presero parte oltre ad Augusto e ad i suoi familiari, i Littori con in mano Fasci simboleggianti il potere e l’autorità (ripresi poi, modificandone l’originario senso, dal movimento fascista che da essi trae il nome), i Senatori, i sacerdoti e i magistrati.
Nelle sezioni inferiori di tutti e quattro i lati si snodano volute di acanto intrecciate a cigni.
Nell’altare interno, di cui purtroppo è andata perduta la maggior parte della struttura e dei rilievi, si scorgono intrecci di foglie e frutti, e scene che ritraggono degli animali sacrificati dai sacerdoti nel giorno della consacrazione del monumento che avvenne il 4 luglio del 13 a.C.
Nel corso del lungo periodo medievale, durante i secoli dei saccheggi e delle depredazioni della città eterna, la splendida Ara che era posta nei pressi dell’attuale Via del Corso, sotto quello che ora è denominato Palazzo Fiano, all’angolo sud-ovest di Via in Lucina, fu smantellata e numerosi dei suoi fregi andarono dispersi mentre altri rimasero sepolti sotto le macerie della città devastata dalle spoliazioni.
Nel 1545 il Cardinale Ricci di Montepulciano comperò dei bassorilievi in marmo, provenienti da alcuni scavi dislocati proprio in Via in Lucina, dov’era raffigurata una processione di personaggi caratterizzata da un naturalismo tale, nella gestualità e nel lavoro dei panneggi, da denotare senza ombra di dubbio la loro appartenenza all’età classica. Questi pannelli, portati poi alla Galleria degli Uffizi di Firenze, erano di fattura simile a quelli conservati in Vaticano, e ad altri reperiti negli stessi anni e nello stesso luogo, sparsi in seguito per l’Europa e collocati nel museo del Louvre come in quello di Vienna.
Alla stessa opera appartenevano frammenti e spezzoni marmorei ritrovati a distanza di secoli, a metà ’800 nello stesso punto della strada romana.
Solo nel 1898 però l’Italia, ormai unita, riconobbe in quei bassorilievi lapidei la famosa Ara augustea decantata dalle fonti classiche. Si avviò dunque una nuovo progetto di ricerche che fu interrotto, abbandonando sotto terra il materiale che fino a quel momento non si era ancora riusciti a prelevare, a causa dei cedimenti del Palazzo soprastante.
Fu sotto il fascismo, nel 1937, che gli ultimi pezzi dell’altare riaffiorarono dalla polvere grazie all’utilizzo di una nuova tecnica che consentiva di giungere al livello dei marmi e di portarli in superficie senza mettere a repentaglio la stabilità dell’edificio situato al di sopra del cantiere di scavo.
L’Ara, ricostruita attraverso l’assemblaggio del materiale ritrovato, di alcuni frammenti riconsegnati, di altri copiati per supplire la mancanza degli originali, fu posta sul Lungotevere nelle vicinanze del Mausoleo di Augusto e sulla sua collocazione ancor oggi sorgono polemiche mai placate.
Non possiamo in ultimo dimenticare i Fori Imperiali che, per la loro importanza e maestosità, fanno di diritto parte di questa carrellata di ritrovamenti archeologici e stravolgimenti urbanistici conseguiti durante il periodo fascista.
I Fori Imperiali, così chiamati in onore degli imperatori che posero mano alla loro costruzione e per distinguerli dall’antecedente Foro Romano, sono composti dal Foro di Cesare, dal Foro di Augusto, dal Foro di Vespasiano, da quello di Nerva ed infine da quello di Traiano che celebra la vittoriosa battaglia condotta in Dacia.
La costruzione del primo Foro, nel 46 a.C., ad opera di Cesare, il quale volle la realizzazione della nuova area per decongestionare l’affollatissima zona del Foro Romano che sorgeva nella stretta valle, prima paludosa e poi bonificata, che divideva il Palatino dal Quirinale, segna il passaggio dalla Repubblica all’Impero. A questa monumentale opera, conclusa dopo la morte dello statista, si aggiunsero i Fori progettati e voluti da Augusto e dai successivi imperatori che comunicavano con il Foro Romano incanalandosi su una linea ininterrotta che giungeva fino a questo.
Nel 1932 sui Fori, nel mezzo di essi, venne aperta da Mussolini una strada, Via dei Fori Imperiali, con vista sulle pittoresche rovine e con il Colosseo per sfondo, voluta in occasione dell’imminente arrivo di Hitler, arteria che, solcando i resti dell’antica Roma, al contempo celebrava i ruderi che tuttora attraversa, e ricopriva, come ancor oggi, gran parte dei monumenti che voleva esaltare, impedendo di comprendere a fondo come nella Roma imperiale la zona creata dagli imperatori fosse costituita da un’unica struttura che rappresentava il naturale continuum del nucleo cittadino abitato già dal periodo repubblicano.
Scoperte e scempi, scavi e distruzioni, ritrovamenti e perdite: questo fu il fascismo da un punto di vista artistico-archeologico.
Autore: Barbara Carmignola