Nel secondo corridoio della Galleria Uffizi è conservato un gruppo scultoreo che rimanda ad una delle più antiche opere ispirate all’iconografia di Amore e Psiche, si tratta di una copia romana di un originale ellenistico del IV sec. a.C.; anche la Psiche afflitta conservata ai Musei Capitolini di Roma è una copia di produzione romana di un originale greco databile nello stesso arco di tempo; nel castrum di Ostia, che la tradizione attribuisce ad Anco Marzio, quarto re di Roma, sorge la cosiddetta domus di Amore e Psiche, una delle case dalla tipica struttura a peristilio, datata IV sec. d.C., così denominata perché, nonostante il trascorrere delle ere, ancora reca tracce della celebre iconografia celebrativa delle storie dei due innamorati.
Passando per il periodo rinascimentale, per Raffaello e Giulio Romano, fino a giungere al neoclassicismo di Canova, possiamo notare come la fortuna di questo soggetto sia rimasta immutata nel tempo; riteniamo, quindi, d’indubbio interesse indagare le ragioni di questa sempiterna attualità di un’iconografia che assimila reperti archeologici millenari ad opere d’arte cui al massimo sono riferibili un paio di secoli di storia.
La rappresentazione congiunta dell’Anima e di Eros, che circola almeno dal IV secolo a.C., preesiste all’adozione dei due personaggi nella favola apuleiana che, stando all’ipotesi di Carl Schlam, si sarebbe ispirata non solo ad antiche fonti letterarie e filosofiche ma anche alle preesistenti opere d’arte che su questo tema erano state prodotte.
In statue, vasi, pitture murali, gemme, rilievi su sarcofago, antecedenti alla stesura delle Metamorfosi di Apuleio (II sec. d.C.), è frequente trovare la raffigurazione di una fanciulla alata oppure semplicemente di una farfalla: sono i primi esempi dell’iconografia di Psiche-anima, legittimata dal doppio significato della parola greca Ψυχή, che indica ad uno stesso tempo il soffio vitale e la falena.
Solo in tempi successivi a Psiche viene affiancata la figura di Eros: le immagini più semplici presentano delle rappresentazioni di carattere piuttosto statico nelle quali il dio è colto nel atto di abbracciare la fanciulla oppure con la farfalla posata tra le mani. Insieme al diffondersi del motivo si assiste ad una diversificazione iconografica che si codificherà nei secoli in stilemi ben precisi: Psiche è alternativamente rappresentata sola e afflitta, impegnata a subire o ad infliggere tormenti al suo amante, stretta a lui in un abbraccio oppure colta nel momento del bacio.
La favola di Amore e Psiche, baluardo del neoplatonismo di stampo plotiniano e ficiniano, è stata ampliamente sfruttata in ambito rinascimentale, e come abbiamo appurato anche in tempi più remoti, per esaltare, con mezzi artistici, la congiunzione, teorizzata nel Fedro platonico, dell’anima e di Amore, raggiunta attraverso quella Bellezza che altro non è se non “un tralucere dell’intelligibile nel sensibile” (Platone, Fedro, 250 B), un ponte levatoio gettato tra la realtà fenomenica e l’Iperuranio, residenza delle Idee.
Platone nel Fedro scriveva: “Infatti, come è stato detto, ciascun’anima di uomo, per sua natura, ha contemplato gli esseri, altrimenti non sarebbe venuta in questo vivente. Ma, il ricordarsi di questi esseri, procedendo dalle cose di quaggiù, non è cosa facile per tutte le anime: non per quelle che videro con un breve sguardo le realtà di lassù, non per quelle che, cadute quaggiù, ebbero la cattiva sorte, e trascinate all’ingiustizia da cattive compagnie, caddero nell’oblio di quelle realtà sacre che videro allora. Restano poche anime nelle quali è presente il ricordo in maniera sufficiente. Queste, quando vedono qualcosa che sia un’immagine delle realtà di lassù, restano colpite e non rimangono più in sé. Però non sanno che cosa provano, perché non lo percepiscono perfettamente” (Platone, Fedro, 249 B-250 B).
Poiché “solamente la Bellezza ricevette questa sorte di essere ciò che è più manifesto e più amabile” (Platone, Fedro, 250 E) e, d’altro canto, poiché la sua vista, in anime che abbiano contemplato a sufficienza il mondo delle Idee, produce un indicibile amore, si spiegherà così l’ékfrasis apuleiana che narra l’incontro dell’anima (Psiche) con Eros, la curiositas che spinge alla contemplazione del Bello e che lascia nella parte immortale degli esseri mortali la struggente nostalgia di un mondo che, rimirato per un istante, è poi sottratto alla vista.
Se il Bello è considerato mediatore tra i due mondi, ideale e reale, l’amore (Eros) che la vista della Bellezza produce è considerato a sua volta un demone capace di mediare tra ciò che è divino e ciò che è mortale, mettendo in comunicazione uomini e dei (Simposio, 202 B).
Le prove che sostiene Psiche per ricongiungersi ad Amore, così come quelle che, più ampliamente, lungo l’intero romanzo delle Metamorfosi, sostiene Lucio l’asino per poter acquisire nuovamente le sembianze umane, rappresentano le tappe dell’iniziato ai culti misterici e, più in generale, i gradini che ogni uomo nel suo percorso di vita deve risalire per sciogliere gli ormeggi della più triviale carnalità ed elevarsi alle vette del puro spirito, nonché i tentativi che ogni mortale deve compiere per cercare di domare il cavallo nero della propria auriga e lasciar prevalere al comando quello bianco.
Nel momento in cui la favola apuleiana si traduce nella corrispettiva iconografia artistica, sia essa quella del bacio tra i due amanti di cui abbiamo prototipi che spaziano dagli esemplari greci del IV secolo al levigatissimo gruppo scultoreo del Canova (1793 ca.), sia essa invece ispirata all’istante in cui la goccia di cera sciolta brucia le ali di Cupido addormentato, risvegliandolo dai torpori del sonno, come nella tela di Simon Vouet (1627-1629 ca.) o in quella del Crespi (1708-1710), nel momento in cui si ha questo fondamentale trapasso dalla letteratura all’arte avviene un nuovo miracolo: contempliamo noi stessi, i fruitori dell’opera, il Bello, e da questo siamo trasportati a nostra volta nel mondo delle Idee, tramutandoci ciascuno di noi in una Psiche che contempla Amore e che si lascia invasare dal nostalgico rimpianto per un paradiso perduto di stampo miltoniano.
L’arte che Platone aveva definito copia di una copia, in quanto imitatrice di una realtà fenomenica che imita quella noumenica, si riscatta essa stessa nella concettualizzazione del Bello come modalità di congiunzione tra reale e Ideale.
Nel caso della contemplazione di un’opera d’arte figurativa che abbia come soggetto la favola di Amore e Psiche questo processo di riavvicinamento all’Idea, che ogni prodotto artistico compie, si duplica: qualunque “opera bella” lascia baluginare l’intelligibile nel sensibile; un’ “opera bella” che adotti a soggetto questa favola farà inoltre di questo processo di riavvicinamento tema della propria iconografia.
E’ tenendo conto di questo aspetto meta-artistico che si deve approcciare la lettura iconologica di opere basate su tale soggetto perché solo mediante questa previa analisi si potrà comprendere la portata di queste raffigurazioni che illustrano un processo che al contempo compiono: l’elevazione dell’anima mediante la percezione della Bellezza.
Autore: Barbara Carmignola