Per chiunque pratichi immersioni, imbattersi in reperti o relitti è un’eventualità tutt’altro che remota: ecco cosa fare.
Come visto nella scorsa puntata, per vivere la storia sommersa da protagonista è necessario diventare archeologo subacqueo, affrontando un percorso universitario composito, affiancato dall’apprendimento delle tecniche di immersione e lavoro sui siti subacquei. Esiste però un percorso alternativo per coloro che, seppur affascinati dal passato sommerso, non desiderano imboccare la strada della professione vera e propria.
Essi possono diventare «volontari», collaborando fattivamente con la ricerca ufficiale. Il ruolo del subacqueo appassionato di archeologia è stato troppo spesso confuso con quello del tombarolo dei mari, inquinato da accuse di interferenza e sovrapposizione con il lavoro degli studiosi, persino da sospetti di involontari danneggiamenti dei siti sommersi. Casi di questo genere si sono purtroppo verificati, ma alcuni episodi negativi non possono cancellare l’importanza del ruolo del volontariato nella ricerca archeosub italiana. Infatti, molte grandi scoperte avvenute nei nostri mari – dai Bronzi di Riace a quelli di Brindisi, dalle onerarie romane in Adriatico alla nave del piombo di Mal di Ventre –, sono avvenute su segnalazione di subacquei incappati fortunosamente nel relitto. Potenzialmente, chiunque abbia la passione per l’immersione può dunque tramutarsi in un volontario archeosub, poiché non è raro imbattersi in anfore e relitti durante una discesa nel blu profondo.
Col tempo, i fondali italiani sono stati esplorati da migliaia di occhi e le probabilità che qualcosa di antico sia sfuggito diminuiscono di anno in anno, ma è una prospettiva che non va affatto esclusa, vuoi per il gioco delle correnti sottomarine e delle mareggiate, che spostano masse ingenti di sedimenti coprendo e riscoprendo vasti tratti di fondo marino e tutto quel che vi è deposto, vuoi per la vastità delle nostre coste, vuoi ancora per il continuo miglioramento delle tecniche e delle attrezzature, che consente di scendere a profondità sempre maggiori, ampliando quindi il territorio esplorato.
Ogni informazione è preziosa
Se ci si imbatte in qualcosa che sembra opera dell’uomo – per esempio un’anfora o una marra d’ancora –, ci sono alcune regole precise da seguire. Innanzitutto, l’oggetto non va rimosso, perché la sua importanza scientifica è legata soprattutto alla giacitura e al contesto in cui si trova. Tale regola non vale per reperti di notevole valore – per esempio una statuetta o ceramica dipinta di pregio –, che potrebbero diventare preda di altri sub dalle intenzioni meno civili. In ogni caso è importante prendere nota mentalmente del luogo esatto del ritrovamento, cercando punti di riferimento, sia sul fondo e che poi in superficie. Se si dispone di fotocamera o videocamera è opportuno usarle per documentare l’oggetto e il contesto, ma anche l’area circostante. Se l’imbarcazione appoggio ha un sistema di navigazione elettronico, o anche un semplice rilevatore GPS portatile, essi saranno utili per annotare il punto geografico esatto dell’immersione. Il passo successivo è la denuncia della scoperta, che può essere fatta presso la locale Capitaneria di porto, alla stazione dei Carabinieri o delle altre Forze dell’ordine, o contattando la Soprintendenza archeologica competente per territorio. Al momento della segnalazione è importante fornire tutti i possibili dati utili per identificare tipologia e luogo del ritrovamento, quindi anche eventuali foto e video. La legge italiana in materia prevede che allo scopritore spetti un «premio di rinvenimento», calcolato in percentuale sul valore stimato dei materiali recuperati.
Autore: Giovanni Lattanzi
Fonte: www.archeo.it , giugno 2008