I deserti della Penisola Arabica sono sempre stati luoghi abitati, con una ricchezza di diversità umana e naturale. Alcuni popoli hanno vissuto in questi deserti o nelle loro vicinanze, altri li hanno attraversati e altri ancora vi hanno trovato fonti di acqua essenziali per la sopravvivenza.
Ciò vale anche per la valle di AlUla, un’oasi verdeggiante, con agrumi e palme, adagiata tra le rocce desertiche di arenaria nella zona nord occidentale dell’Arabia. Qui, a partire almeno dall’Età del ferro (primo millennio a.C.), prosperarono antiche civiltà. Gli archeologi all’opera nel vicino altopiano basaltico di Harrat al-Uwayrid hanno ritrovato strumenti come le asce a mano in pietra locale. Tale scoperta ha spinto Azhari Mustafa Sadig, professore di archeologia alla King Saud University, a ipotizzare che “l’altopiano fosse abitato da cacciatori-raccoglitori già dal paleolitico, più di 200.000 anni fa”.
Quando le popolazioni iniziarono a sfruttare le risorse naturali della valle di AlUla, passarono dall’attività nomade di caccia e raccolta all’agricoltura, divenendo così stanziali. Iniziarono a usare i corsi d’acqua dell’oasi per l’agricoltura, continuando al contempo a pascolare pecore, capre e altro bestiame. Secondo l’archeologo Abdulrahman Alsuhaibani, 2.600 anni fa l’oasi sosteneva la crescita di Dadan, una “capitale potente” con un’economia alimentata dall’agricoltura e dal commercio a lunga distanza.
Governata da una successione dinastica di re con base entro i confini della valle di AlUla, Dadan assunse un ruolo prominente nella regione. Come conferma Alsuhaibani, la struttura di governo centralizzata della città era forte e sufficientemente stabile da poter impegnare delle risorse per la difesa. Vi sono infatti iscrizioni che testimoniano la presenza di “guardiani” assegnati alle frontiere di Dadan.
Gli spostamenti delle persone lungo le vie del commercio portavano verso nord nuovi beni, tra cui l’incenso, una resina aromatica ricavata dalla linfa di un albero originario dell’Arabia meridionale e del Corno d’Africa. Il commercio di incenso rappresentava un’enorme fetta del successo economico di Dadan. Gli agricoltori della lontana Arabia meridionale raccoglievano grandi quantità di questa resina che veniva trasportata a nord ed era destinata principalmente ai mercati del Mediterraneo, ma non solo. Essi trattavano con i commercianti, che poi trasportavano l’incenso con viaggi che si protraevano per mesi prima di raggiungere Dadan, da dove poi il viaggio proseguiva. I profitti generati e i dazi riscossi dal popolo di Dadan, costituirono il pilastro della prosperità della regione per diversi secoli.
Il commercio portò con sé nuove idee, nuove espressioni artistiche e nuovi modi di scrivere. Dadan sviluppò il proprio sistema di scrittura, ispirato alle scritture delle oasi vicine, come Tayma e Dumah, e agli alfabeti dell’Arabia meridionale. Tra le migliaia di iscrizioni sopravvissute si trovano dediche composte formalmente e più semplici graffiti. Il dadanitico, nome con il quale è nota la lingua locale, ebbe una straordinaria capacità di resistenza e rimase in uso nella valle di AlUla e dintorni per almeno 500 anni.
Lo storico Michael Macdonald ha esaminato le sottili differenze tra le iscrizioni dadanitiche, notando che le forme delle lettere variano in un modo insolito per una scrittura destinata esclusivamente all’incisione sulla pietra. Egli afferma che, curiosamente, l’evoluzione della forma delle lettere “suggerisce che la scrittura fosse usata per scrivere con l’inchiostro su materiali come il papiro o i cocci”. Gli archeologi sono a caccia di esempi.
È naturale presumere che il potere di Dadan abbia vissuto alti e bassi. In modo particolare, siamo a conoscenza di un periodo di conflitto con Nabonedo, re della lontana Babilonia, che nel sesto secolo a.C. rivendica l’invasione della regione di Dadan, l’uccisione del re e la conseguente occupazione di quel territorio.
Dopo Nabonedo, in un certo momento storico di circa 2.500 anni fa (non si sa esattamente quando), il controllo di Dadan passò ai re della tribù di Lihyan, che governarono la regione per diversi secoli, forse fino al primo secolo a.C. Le testimonianze materiali sopravvissute, tuttavia, suggeriscono che il governo lihyanita non sconvolse enormemente la cultura dadanita.
In quello che era diventato il regno di Lihyan, uomini e donne avevano il diritto alla proprietà. L’agricoltura rimase essenziale per la società e fu potenziata dalle innovazioni nella gestione delle risorse idriche. Naturalmente l’acqua veniva utilizzata per usi domestici e agricoli, ma pare avesse un suo ruolo anche nei rituali. Un’enorme vasca cilindrica per l’acqua, scavata da un’unica pietra e collocata nel cuore di Dadan vicino a un edificio, era con tutta probabilità impiegata a fini religiosi o cerimoniali di altro tipo. Al fianco del proprio sistema di scrittura, Dadan aveva i propri dei e le proprie forme di culto, con santuari situati sui monti vicini alla città e sulla vetta del Monte Umm Daraj, oltre la valle.
La popolazione dell’antica Dadan venerava la divinità suprema Dhu Ghabat, il cui significato è dibattuto. Alcuni interpretano il nome come “padrone del bosco”, altri come “signore della foresta”, e altri ancora come “dio dell’assenza”. Il santuario del monte Umm Daraj è dedicato a Dhu Ghabat. Qui i devoti, tra i quali i lihyaniti, i commercianti di passaggio e la colonia commerciale di minei dell’Arabia meridionale residenti a Dadan, facevano offerte votive con incenso e piccole statuette dalle fattezze umane in arenaria. Sugli elementi architettonici sono stati ritrovati dei motivi decorativi di un serpente, che potrebbe avere una “funzione protettiva”, secondo quanto suggerisce lo storico Husayn Abu al-Hassan. Come nota Michael Macdonald, le iscrizioni suggeriscono inoltre che “la venerazione di Dhu Ghabat potrebbe aver incluso l’offerta dei ‘primi frutti’ alla divinità”. Tra le altre divinità adorate a Dadan in quest’epoca vi è Ha-Kutbay, la dea della scrittura.
Indubbiamente, l’arte era importante per le antiche popolazioni di Dadan, e la maestria dadanita e lihyanita nella scultura di statue è eccezionale. “Dove e come queste persone avevano acquisito una tale padronanza delle regole della scultura: proporzioni del corpo, volume, prospettiva?” si chiede l’archeologo Said al-Said. Egli ritiene che, sebbene vi fossero interazioni con le vicine culture di Egitto, Levante, Mesopotamia e Arabia meridionale, è probabile che quest’abilità dadanita testimoni un’evoluzione culturale esclusiva di questa parte dell’Arabia.
L’arte rupestre risalente al periodo dadanita o lihyanita annovera scene di caccia, cammelli, struzzi e raffigurazioni astratte di persone. In alcuni siti gli archeologi hanno ritrovato collezioni di statue, incluse alcune con sembianze antropomorfe interpretate come raffiguranti divinità dadanite o persone reali, scolpite per rendere omaggio e dimostrare dedizione alle divinità.
I ritrovamenti indicano che, al fianco delle notevoli capacità politiche, commerciali, scientifiche e artistiche, i dadaniti avessero anche una dedizione verso la sepoltura dei loro defunti. Nel periodo lihyanita, le tombe venivano scavate nella roccia ed erano destinate a una o più persone. Visibili tutt’oggi, tra le grandi rocce di arenaria, vi sono le “tombe dei leoni”, tombe adiacenti, con a fianco bassorilievi di leoni, forse come protezione divina per chi riposava nelle stesse.
“I regni di Dadan e Lihyan svolsero un ruolo determinante nel corso del primo millennio a.C.”, afferma Alsuhaibani, confermando l’importanza di un luogo e un periodo storico trascurati per lungo tempo. Oggi, gli scavi e le ricerche sulle culture della popolazione di Dadan proseguono in tutta la vallata di AlUla, gettando una nuova luce sulle loro abilità e sul loro ingegno. Con ogni nuova scoperta diventa chiaro che il deserto, un tempo ritenuto arido o vuoto, in verità ha sempre ospitato la vita. L’oasi di Dadan, tra le altre oasi e centri di attività di questa regione, mette in mostra conquiste e tragedie umane al pari di ogni luogo del pianeta.
Fonte: www.nationalgeographic.it, 22 set 2022