Il Comune di Borgo Pace (PU), in collaborazione con la Provincia di Pesaro e Urbino e con il Centro di Educazione Ambientale (CEA) di Lamoli, ha realizzato un opuscolo didattico-informativo dal titolo “Borgo Pace, di natura per tradizione”. La pubblicazione, correlata da numerose immagini, illustra le bellezze naturali e architettoniche del territorio e focalizza l’attenzione del lettore su alcune aree di interesse archeologico, che si configurano come vere e proprie emergenze.
La più importante tra queste è Lamoli, frazione del Comune di Borgo Pace, al confine tra Marche, Umbria e Toscana. Località dove a partire dal VI sec. d.C. nasceva il Castrum Lamularum probabilmente su di un insediamento rurale di età romana. Il Castrum, protetto da possenti cortine murarie, intervallate da torri, e raggiungibile solo attraverso un ponte, ancora esistente, era ben distinto dall’Abbazia fortificata fondata pochi anni dopo la morte di San Benedetto. Probabilmente i monaci si insediarono su di un colle che sovrasta l’Abbazia, chiamato Castellaccio, dove sono ancora visibili resti di fortificazioni e antiche dimore; è ancora individuabile un corridoio in muratura che univa la struttura a valle con quella a monte allo scopo di facilitarne il collegamento.
Le attività di sostentamento di queste popolazioni si basavano sulle ricchezze locali: il legno e i minerali. Da queste nacquero: officine di travi, con segherie azionate ad acqua perenne (una di queste è ancora oggi identificabile nel podere La Sega), miniere di ferro, probabilmente a cielo aperto, la cui esistenza è documentata ancora in atti notarili del XVI sec. e botteghe per la lavorazione del metallo, estratto da tali miniere. Fin dalla metà dell’XI sec. erano attive, nelle vicinanze dell’Abbazia (la principale in località Castel dei Fabbri), due fornaci con annesse fucine per colare il ferro, purgarlo, raffinarlo e modellarlo.
Due indizi sembrano confermare la presenza di Longobardi a Lamoli: una laminetta di piombo, rinvenuta nel 1586 durante i lavori di demolizione dell’altare maggiore, recante un’iscrizione che fa ritenere l’abbazia consacrata inizialmente a San Cristoforo e solo in un secondo momento a San Michele Arcangelo, caro soprattutto ai Longobardi convertiti; il secondo indizio consiste in un sepolcro, rinvenuto durante i lavori di restauro dell’Abbazia nel 1950, e contenente uno scheletro lungo oltre due metri, ben conservato e senza corredo, con una corporatura sicuramente più vicina al modello longobardo che non a quello autoctono.
Importanti ”segnali” recepiti dalle Istituzioni locali che hanno saputo preservare le testimonianze materiali di questo spicchio di passato. Ma ciò non basta.
Auspicabile sarebbe, infatti, l’intervento della ricerca archeologica, per poter trasformare queste situazioni di emergenza in vere e proprie occasioni di studio e di sviluppo del territorio.
BIBLIOGRAFIA:
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C. LEONARDI, Monasteri benedettini nella Valle Superiore del Metauro, Città di Castello 1982;
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M. SALMI, Miscellanea preromanica. Atti del I Congresso Internazionale di Studi Longobardi.
Autore: Antonio Merola