Archivi

ANNIBALE, passaggio a nord-ovest.

Le berline impolverate suonano per chiedere strada sugli stretti tornanti sterrati del Gran San Bernardo. Sotto il berretto, il cornac, ossia l’uomo che guida l’elefante, armato di una canna, spinge Dolly verso il margine della strada. L’animale ubbidisce con aria stanca, la proboscide annusa i fili d’erba del ruvido prato alpino. I ciclisti appoggiano il piede a terra, una piccola folla di curiosi, sacco in spalla, si è formata al seguito di questa straordinaria carovana. Il lento procedere e la presenza di tre ecclesiastici, due dei quali col cappello tondo, conferiscono a questa processione, l’aria di un corteo funebre. E’ l’uscita della messa all’ospizio. Passata la galleria scavata nella neve, si penetra nella Combe-aux-Norts, dove il priore è venuto ad incontrare questo visitatore di riguardo. Il pachiderma, spossato, si ferma e si stende di traverso alla strada.
Domenica 21 luglio 1935 a mezzogiorno, Richard Halliburton, scrittore, poeta e avventuriero americano, è sul punto di portare a termine una delle imprese dalle quali trae i suoi best-seller: la traversata delle Alpi con l’elefante più di duemila anni dopo Annibale. Dolly, presa in affitto assieme al cornac al Giardino d’acclimatazione di Parigi, è stata trasportata in treno fino alla stazione di Martigny, in Svizzera. Il primo giorno, il ritmo di marcia è stato sostenuto: tre chilometri l’ora attraverso i vigneti del Valais, con doccia al momento della sosta serale. Quando la strada (e la piccola folla di perdigiorno) ha cominciato ad arrampicarsi verso Orcières, l’elefante ha rallentato l’andatura.
Il terzo giorno, Halliburton, vestito con un’impeccabile impermeabile bianco, ha smesso di cavalcare l’elefante e sente che si è vicini all’epilogo. Per un po’ l’americano incita la sua cavalcatura con le parole con le quali il generale cartaginese sollevava il morale della truppa: “Guarda l’Italia, Dolly, Roma ti è offerta. Alzati Dolly, e mangia…”.
Eppure Halliburton è un avventuriero di quelli che fanno sul serio. Ha percorso il canale di Panama a nuoto, sorvolato il Taj Mahal su un biplano rosso in volo rovesciato, scomparirà presto nel tentativo di arrivare da Hong Kong a San Francisco su una giunca … Bisogna credere che il mito sia potente per indurlo ad esporsi al ridicolo blandendo un pachiderma vittima del mal di montagna su una strada delle Alpi.
Verso i 2400 metri di altitudine del colle, l’elefante sembra soffrire per mancanza d’ossigeno. E’ questa, in ogni modo, l’ipotesi del reporter che Le Petit Dauphinois ha mandato a seguire l’avvenimento; una giovane guida dai capelli ricci, trasferitasi da dieci anni nella valle di Chamonix, che si cimenta col giornalismo con lo stesso entusiasmo con cui si dedica all’alpinismo e al salto con gli sci: Roger Frison-Roche. Il suo nome non dice ancora niente a nessuno. Del resto, L’Illustration, che ha acquistato da lui una foto, la pubblica (il 3 agosto 1935) con un trafiletto non firmato il cui stile tradisce il principiante. “L’impresa pareva poco facile da realizzare: la massa dell’animale, le difficoltà dell’ascensione, soprattutto la ridotta pressione atmosferica, abituale causa del mal di montagna, sembravano renderla quasi impraticabile”. Dolly, ammalata, fu avvolta in una tela e curata; si risollevò e passò il colle del Gran San Bernardo per scendere verso Aosta. Si sfiorò la catastrofe quando “la camionetta che trasportava la scorta si capovolse, ma l’elefante, il suo cornac e l’avventuriero arrivarono a Torino sani e salvi. Dolly ritornò nella sua gabbia, Frison-Roche faceva il suo primo grande reportage.
La catastrofe sfiorata durante la discesa è, senza dubbio, il solo punto in comune tra questa strampalata spedizione e la leggendaria traversata delle Alpi intrapresa da Annibale e dalla sua armata di 60 mila uomini e cavalieri all’inizio dell’inverno dell’anno 218 a.C. Traversata con gli elefanti che ancora oggi ci fa chiedere: che cosa fa il pachiderma africano con le zampe nella neve? E’ l’Africa, con lui, che invade il nostro immaginario di eredi dell’impero romano? E per dove è passato questo antico carro armato? Probabilmente non dal Gran San Bernardo, scelto dall’avventuriero americano per il recente ricordo del passaggio delle armate napoleoniche. Avrà risalito la Durance o l’Isère? Si sarebbe tentati di rispondere che non ha importanza … se non si temesse di offendere gli autori di qualche centinaio di libri (si parla di 850!) sul passaggio di Annibale attraverso le Alpi.
Ciò che affascina sempre di Annibale è l’animale al quale il suo destino è legato suo malgrado, e l’apparente impossibilità del loro passaggio attraverso montagne invalicabili. Il mito nasce dallo spessore dell’enigma – e dalla sua bellezza. Privato del mistero dei suoi elefanti, il leggendario condottiero punico sembra nudo, ridotto a un nome di cui Hollywood ha brutalmente sfruttato la sonorità cannibalesca, portando a termine un’opera di demolizione iniziata dalla storiografia romana immediatamente dopo la sua morte – vae victis.
Annibale varcò le Alpi, e dopo? Chi, oltre ai cultori di tattica militare, si ricorda della battaglia di Canne? Chi può indicare la data di questo urto frontale (o, meglio, di come fu magistralmente evitato) tra l’armata “multinazionale” dei Cartaginesi e le legioni romane, che lo storico Serse Lancel, il cui Hannibal fa testo, considera come la prima guerra mondiale? Chi sa ancora che Cartagine, all’indomani di questa umiliazione inflitta a Roma (oltre 50 mila morti, il 2 agosto 216 a.C.), ebbe nelle sue mani le sorti del nascente impero? Chi, se non Napoleone I, quest’altro precoce generale, saluta l’eroe “così audace che, a 26 anni, concepisce ciò che è appena concepibile, attua ciò che si dovrebbe considerare impossibile” (apprezzate il gioco di specchi), il guerriero che “occupa, percorre e governa l’Italia per sedici anni, portando più volte la terribile e temibile Roma a due passi dalla rovina” (Memoriale di Sant’Elena)?
Il primo combattimento importante sotto la guida di Annibale avviene sulle rive del Tago. Inseguito, egli attraversa il fiume a guado per attirarvi i suoi inseguitori: “Non appena vi furono entrati, scrive Serge Lancel, la cavalleria di Annibale li travolse nella corrente; quelli che riuscirono a raggiungere la riva furono schiacciati dalla carica di una quarantina d’elefanti”. Ecco dunque la funzione dei pachidermi in combattimento: caricare, schiacciare, fare paura.
I cartaginesi avevano imparato ad usarli a proprie spese in occasione della disfatta da loro subita per mano del greco Pirro, il quale utilizzava elefanti asiatici che portavano sulla groppa una torre e due arcieri alla maniera indiana. Quanto ai cartaginesi, catturavano i loro animali nelle foreste dell’Atlante, da dove più tardi scompariranno a causa della caccia indiscriminata da parte dei circhi della Roma imperiale. Più piccoli dei loro fratelli d’Asia (e, naturalmente, dell’elefante di prateria), gli “elefanti di foresta”, o Loxodonta atlantica, trasportavano dei cornac detti indio, anche se non tutti erano indiani. Contro questi rulli compressori che terrorizzavano la fanteria, Scipione troverà presto un rimedio: maiali spalmati di pece infiammata i cui versi spaventavano i pachidermi.
Nelle mani di Annibale, in questa primavera dell’anno 218, l’elefante è ancora un’arma decisiva. Che resta tuttavia simbolica, se confrontata alla cavalleria forte di 10 mila uomini. Quest’armata in marcia s’ingrossa come un fiume in piena per le alleanze concluse strada facendo: partito da Cartagine in primavera, Annibale attraversa i Pirenei in luglio. Seguendo all’incirca il tracciato dell’autostrada A9, passa il Rodano a metà agosto a Nord di Avignone, accelera il passo eludendo l’armata di Scipione. In ottobre si trova ai piedi delle Alpi le cui cime innevate sembrano toccare il cielo. Egli rassicura e incita i suoi uomini: se “famiglie d’immigranti” hanno potuto varcare queste montagne con donne e bambini, perchè non potrebbe farlo un soldato? Sulla via prescelta, Monginevro, Moncenisio o uno degli altri colli non è possibile pronunciarsi; che il mistero continui!
Come hanno reagito gli elefanti? Avranno sofferto il mal di montagna come osservò Frison-Roche? Quanti ne sono morti? Gli storici citano l’ingegnosità che c’è voluta per far attraversare il Rodano ai 27 pachidermi, la loro presenza spaventosa e decisiva durante le imboscate degli Allobrogi, e le loro difficoltà nella discesa dal colle. In seguito, dopo che l’armata dei cartaginesi è ormai in Italia, gli elefanti sembrano essersi volatilizzati. Un anno più tardi, dopo una tempesta subita sull’Appennino, sembra che in tutta l’armata sia rimasto un solo elefante, cavalcato dallo stesso Annibale, divenuto cieco da un occhio a causa di un’oftalmia.
Vinto da Scipione l’Africano nel 201, Annibale conobbe l’esilio. Si possono seguire le sue tracce che si snodano verso Oriente, ad Atene, Creta, fino in Armenia, dove concepisce il progetto della città di Artaxata, ai piedi del monte Ararat.
A 63 anni, rifugiatosi a Libyssa, sulla costa asiatica del Bosforo, Annibale bene una coppa di veleno mentre i soldati romani circondano il suo rifugio.


 


Fonte: La Stampa 05/08/2006
Autore: Charlie Buffet

Segnala la tua notizia