L’utilizzo della tecnologia LiDAR ha consentito di svelare i segreti nei dintorni del sito di Angkor: che sia l’inizio di una nuova epoca d’oro per l’archeologia?
Le prime tracce di una città perduta ai piedi del Vesuvio vennero alla luce in maniera del tutto casuale: era il 1709 quando un uomo trovò marmi e colonne mentre scavava un pozzo nel proprio podere. Un sistema di pozzi e cunicoli rivelò l’esistenza di strutture complesse, giungendo fino al Teatro Antico di Ercolano. La scoperta fu l’impulso che spinse il Re Carlo III a rilevare il terreno ed iniziare gli scavi sistematici. Nel 1748, così, iniziarono anche i primi lavori attorno all’altra città, anch’essa sepolta dalla violenza del Vulcano nel 79 d. C.
Città nascoste
Ritrovamenti archeologici di questo tipo sono un evento senza dubbio eccezionale ma non unico: spesso si basano su conoscenze pregresse (storie leggendarie, magari note soltanto ai locali) che riescono a coniugarsi con la fortuna. Come fu, ad esempio, il caso di Petra, in Giordania, la quale non era nascosta dalla cenere e dai lapilli, ma da una stretta gola naturale: un viaggiatore svizzero, in grado di spacciarsi per un mercante arabo grazie alle sue profonde conoscenze in materia di lingua e cultura islamiche, aveva sentito parlare di una fortezza naturale dall’aspetto straordinario. Riuscì a farsi portare lì, avendo espresso la volontà di sacrificare sulla tomba di Aronne: era il 1812 e, sotto gli occhi probabilmente increduli di Johann Ludwig Burckhardt comparve la città che fu cuore del regno dei Nabatei, della quale non si avevano più notizie dal XIII secolo.
Uguale stupore dovettero provare i primi viaggiatori che si ritrovarono dinanzi le vestigia della “città perduta” della Cambogia: già noto attraverso alcuni resoconti del XVI secolo da parte di esploratori portoghesi, il sito di Angkor iniziò a svelarsi al mondo moderno prima attraverso i racconti di viaggio di Henri Mouhot. Nel 1860, infatti, questo professore francese visitò le meravigliose strutture dell’antico centro politico e culturale dell’Impero Khmer, descrivendole in un diario che fu pubblicato postumo (egli, infatti, morì di malaria nel corso di una spedizione in Laos). In realtà, Angkor aveva continuato ad essere oggetto di viaggi e visite, oltre ad essere parzialmente abitata: tuttavia il suo declino ne aveva favorito l’oblio, quanto meno nel resto del mondo, e furono così le esplorazioni della seconda metà del XIX secolo a restituirle la celebrità meritata. Le travagliate vicende belliche dell’area hanno reso possibile studi e restauri soltanto a partire da tempi relativamente recenti, ma oggi Angkor è meta di due milioni di turisti l’anno.
L’occhio del laser
Ma cosa aveva tenuto celata Angkor agli occhi dei più per tanto tempo? Senza dubbio la vegetazione, in grado di preservare segreti in maniera perfetta: del resto, si sa, la natura vuole i suoi spazi e se li prende, soprattutto se cessa il costante lavoro dell’uomo per tenerla distante. Ancora oggi molte rovine straordinarie, oggetto di grande attenzione da parte degli studiosi, sono sepolte da giungle indomite, ad esempio in America centrale e meridionale. Quali saranno i tesori che scopriranno gli archeologi del futuro, quindi? Forse possiamo già iniziare a farci un’idea grazie alle nuove tecnologie, in grado di rivelare tesori sepolti in maniera più rapida di quanto si poteva sperare fino a poco tempo fa.
In particolare, la nuova frontiera già da diversi anni si chiama LIDAR (light detection and ranging): un sofisticato dispositivo che, montato su un elicottero o su un drone, volando a croce sull’area prescelta, emette milioni di raggi laser ogni quattro secondi i quali, attraversando il tetto di foresta, sono in grado di registrare anche le più piccole variazioni nella topografia, misurando la distanza tra la superficie a terra e il veicolo volante grazie alla riflessione delle onde.
Servendosi del LIDAR, Un team internazionale guidato da dottor Damian Evans dell’università di Sydney ha realizzato, lo scorso anno, una mappatura di 370 chilometri quadri attorno ad Angkor, con una visione dei dettagli senza precedenti che sarebbe stata altrimenti impossibile, data la densità della vegetazione e l’eventualità di incappare nelle mine posizionate al tempo della guerra civile. Il tutto ottenuto in appena due settimane. Le misurazioni hanno poi consentito al gruppo di mettere a punto dei modelli del paesaggio tridimensionali che, anche se non hanno esattamente lo stesso fascino di quello che ci si può trovare davanti procedendo a colpi di machete, possono comunque risultare estremamente utili per più precise ricognizioni sul campo.
Cosa c’è al di là di Angkor?
Gli archeologi hanno così documentato un paesaggio urbano fino ad ora ignoto, nascosto dalla foresta, costituito da altri templi, grandi strade ed elaborati corsi d’acqua che costituivano parte fondamentale del paesaggio urbano, opera di ingegneria idraulica che indica quali erano le elevate conoscenze dei Khmer. Scoperte che modificano profondamente le conoscenze e la comprensione di quella che fu una delle più grandi città del mondo, nel corso del Medioevo: del resto, prima che fosse divorata dalla vegetazione, la “città perduta” raggiungeva l’estensione di una moderna metropoli. Grazie al LIDAR è stato possibile rilevare come l’area urbana dovesse superare i 1.000 chilometri quadrati, all’interno dei quali vivevano centinaia di migliaia di abitanti: e tutto ciò avveniva tra tra il IX e il XV secolo, ossia in un’epoca durante la quale i grandi centri europei vantavano dimensioni e densità abitative decisamente inferiori. Di questa città, il cui declino fu causa dell’abbandono, fino ad oggi conoscevamo soltanto una parte: ora sappiamo che c’è molto altro, celato dalla giungla più fitta ed impenetrabile. Le tecnologie come LIDAR saranno quindi la nuova speranza per l’archeologia? Probabilmente diventeranno uno strumento indispensabile che ci consentirà di sentirci molto più vicini alle antiche civiltà di quanto avvenuto fino ad ora.
Fonte: http://scienze.fanpage.it, 7 ott 2014