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Andrea ROMANAZZI: “Antiche madri nel bacino del Mediterraneo” – Analisi Comparata del Mito delle Sacre Nozze .

Intervento tenuto dall’Autore nell’Occasione della Mostra Internazionale MILLENNIUM, I Misteri dell’uomo e dell’universo in lui. Brescia, Palazzo Bonoris, dal 28 Febbraio al 28 Marzo 2004.

La Dea Madre è stata probabilmente la prima divinità immaginata dall’uomo e, anche se così non fosse, è indubbiamente quella più presente in tutte le culture del mondo antico.
In tutto il Bacino del Mediterraneo, includendo anche l’area Mediorientale sono state ritrovate statuette, terracotte, incisioni, raffiguranti la Grande Dea già a partire da 30.000-25.000 anni prima di Cristo, usanza poi pian piano scomparsa verso il 3.000 a.C. con l’avvento delle popolazioni Indoeuropee veneratrici delle divinità maschili padrone delle armi e delle fucine.

Prima di questa “invasione” la rappresentazione della dea trova sua massima espressione nelle rappresentazioni delle Veneri Preistoriche, figure femminili dai prosperosi seni ricchi di latte, dagli abbondanti glutei e dai ventri smisurati e gravidi.
Se questa era l’immagine della Grande Generatrice dobbiamo capire da dove nasce il suo culto di fertilità e procreazione.

L’uomo dei primordi è fondamentalmente cacciatore e raccoglitore dunque la sua vita è strettamente correlata a quei cicli naturali per i quali da sempre ha mostrato interesse, conoscere i loro segreti non significa dominare la natura ma esserne parte integrante, entrare in perfetta sintonia con la Grande Madre e crescere prosperando con lei.
Il primitivo non è così un “unicum”, come invece il pensiero dell’uomo moderno porta a credere, che vive nella natura ma è parte della stessa e in essa, tra tabù e rituali, cerca e trova sostentamento e prosperità, felicità e dolore, vita e morte. Carichi di fascino così dovevano essere per lo spaurito uomo i segreti naturali che portavano allo sbocciare di un fiore, alla sua trasformazione in frutto, alla nascita di un animale, pargoli di una divinità immaginata come androgina, dalla quale e nella quale tutto nasce, cresce e muore.

All’inizio è il bosco con i suoi frutti a dare sostentamento al primitivo che, proprio per questo, vede in esso e negli stessi animali che vi abitano una sorta di divinità immanente che lo governa, così il rapporto che l’uomo instaura con la natura non è quello di dominatore ma di creatura che vive nel suo divino, lo stesso animale non è solo preda e fonte di sostentamento, ma anche divinità e dunque sacro.
Egli così cerca e trova nella natura i segni della Grande Generatrice, la mater il cui ventre diventano, nell’immaginario primitivo, grotte e antri, ma assume anche le sembianze di animali, poi definiti “totemici” che altro non sono che la stessa dea che si materializza nella sua immanenza.

Successivamente nel Neolitico le popolazioni mediterranee, dedite alla caccia, entrano in contatto con popoli asiatico-orientali già agricoltori. Avviene così una grande trasformazione culturale, l’uomo non è più sottomesso alla natura, ma comincia a produrre frutti e ortaggi, il suo rapporto con la divinità non cambia, essa piano piano si sposta dai boschi ai campi, ma è sempre dipendente dai cicli naturali e dai rituali di fertilità che, mentre prima erano legati alla produzione spontanea, adesso vengono visti strettamente correlati all’agricoltura e al raccolto.
L’uomo inizia a esaminare con sempre più interesse i cicli naturali, l’andamento delle stagioni e i periodi in cui seminare per avere un buon raccolto. Intuisce che la terra non è sempre fertile, ma lo diventa solo quando è “ingravidata” da quello che poi sarà definito il principio maschile, il sole.
E’ in questo momento che al culto della Mater si affianca quello del suo Compagno e spesso anche Figlio perché generato dal ventre Universale della dea. Se dunque la dea è la madre terra che deve esser resa gravida in particolari periodi dell’anno, il suo Compagno sarà soggetto ad una serie di cicli di morte e rinascita che vanno proprio a rappresentare la nascita e la morte della natura.

L’idea del sacro accoppiamento come RITUALE APOTROPAICO che rende fertile e gravida la terra è però molto più antica dello stesso mito e la troviamo espressa nella PRIMITIVA IDEA delle SACRE GROTTE immagine delle profondità uterine della dea dove l’elemento maschile, il priapos universale, rappresentato dalla Sacra Stalagmite, è generato esso stesso nel metaforico ventre della dea. Esso è così sia Figlio (perché generato dalla dea) che suo Compagno (perché ne assicura la fertilità) e poi del SACRO BETILE, la roccia infissa nella bruna terra, l’elemento maschile che, come mistico priapos, la rende fertile.

LE SACRE NOZZE DELLA DEA: i rituali di Accoppiamento.
Successivamente sarà il “ricordo” di queste antichi culti che ritroveremo, ben camuffati, nelle società e culture successive per dar vita a quello che oggi definiamo MITO.
Quello che adesso faremo sarà così un breve excursus alla ricerca delle tracce lasciate da questo antico culto di fertilità e prosperità nelle culture successive del Bacino del Mediterraneo.

In Mesopotamia nel III millennio a.C. erano venerati la dea Inanna (successivamente Ishtar) e la sua unione con il Figlio-Compagno-Dio pastore Dumuzi (successivamente Tammuz).
Il mito di Dumuzi richiama il raccolto che viene festeggiato dai popoli della Mesopotamia come fonte di vita e di fertilità. Essi, infatti, erano convinti che la natura rinascesse ogni anno attraverso un matrimonio sacro che era consumato tra le due divinità.
Il mito è racchiuso nel poema della discesa agli inferi di Inanna che ritroviamo nell’Epopea di Gilgamesh. Si narra che la dea fosse stata imprigionata negli inferi e la sua assenza provocava il blocco delle nascite sulla Terra. Intervengono così gli dei ma neppure loro possono violare una regola ferrea degli Inferi: ogni anima che torna in vita deve essere sostituita agli Inferi. Così Inanna offre in cambio del proprio rilascio il povero Dumuzi. Il dio non può sfuggire ma, ecco che appare la sorella Geshtinanna che intercede per il fratello ottenendo che venga trattenuto nel “mondo di sotto” solo sei mesi l’anno ed offrendosi di sostituirlo agli inferi per gli altri sei.
Secondo una visione che potremmo definire alla “Frazer” di “magia simpatica” questa unione era realmente celebrata tra una sacerdotessa d’Inanna, rappresentante la dea, ed il re della città, che assumeva le funzioni di Dumuzi in una tradizione che successivamente darà vita alla pratica della Prostituzione Sacra.
Il culto Inanna e Dumuzi poi lo ritroviamo nella Grecia Classica con il mito di Tammuz, il giovane eroe nato da una corteccia d’albero nella quale era stata trasformata sua madre Mirra e che, conteso da due dee, Afrodite e Persefone, fu ucciso da quest’ultima per gelosia, e successivamente nel mondo romano sotto il nome di Attis, lo “sposo” e compagno della dea Cibele che lo seguiva nelle sue spedizioni di caccia e del quale si innamorò perdutamente. Così il giorno delle nozze del fanciullo, la dea, vistasi defraudata del suo amore, fece impazzire tutti i partecipanti al banchetto, tra cui la sua bellissima moglie e così Attis, per disperazione, si evirò sotto un pino:
“…stimulatus ibi furenti rabie.vagus animi, devolsit ilei acuto sibi pondera silice…” (fuori di sé, in preda a rabbia furiosa, si recise il sesso).
Sarà così la stessa divinità che, avendo compassione del suo amato, lo trasformerà in un albero e indirà una festa funebre in suo onore. La ricorrenza che si teneva durante il giorno dell’equinozio e legata ai cicli riproduttivi di morte e rinascita della natura ove l’albero “adonico” altro non rappresenta che il simbolo fallico del dio, idea che ritroveremo anche in Egitto.
Se infatti ci rifacciamo al mito di Osiride, si narra che sulla cassa dove fu rinchiuso il dio, crebbe un albero di Melograno, poi, rappresentato dallo zed, antichissimo disegno per tradizione associato al suo culto, ma, in realtà, molto più antico, dato che si trova raffigurato anche in tombe del periodo predinastico, mentre il nome del dio non lo troviamo prima della V dinastia. L’albero cresciuto sulla cassa costruita da Tifone e dunque un simbolo fallico di resurrezione, spesso rappresentato nei sarcofagi, proprio con il compito di riportare in “vita” il defunto.
In Egitto le funzioni vivificatrici erano esercitate da Hathor, la dea vacca con le “corna uterine” tra le quali sorge il sole, quasi ad identificare la dea dalla quale nascono e provengono tutte le cose e il cui nome significa proprio “Casa di Horus”:
“…Madre, colei che partorì il sole, che partorì prima d’ogni altra, prima ancora che fosse partorita…”
Nei primi miti è proprio la dea e madre di Horus e per questo, quando successivamente il dio sarà identificato come il figlio postumo di Osiride e Iside la dea sarà confusa con quest’ultima che acquisirà proprio da Hathor le sue rappresentazioni munite di corna di vacca. Sarà proprio in questa confusione che le sacre nozze saranno così successivamente associate a Iside e Osiride, divinità arborea morta e successivamente resuscitata proprio dalla Dea. Se torniamo alle prime scritture Hathor è però sia madre che compagna di Horus proprio in una visione simile a quelle precedentemente descritte. Horus non subisce una vera e propria morte, a differenza delle divinità precedenti, però perde un occhio grazie al quale può far rinascere il proprio padre Osiride, simbolo della vegetazione e dunque del ciclo naturale.
Come nel caso del culto precedentemente descritto di Inanna, anche in questo caso era il Faraone stesso ad accoppiarsi con la sua regale moglie (la Hathor) e le sue sacre concubine (o sacerdotesse della dea). L’accoppiamento avveniva in quello che oggi definiremmo Harem, il luogo della sacra prostituzione derivante dalla parola araba Haram che significa sia sacro che proibito.

Nell’area siriaco-palestinese il culto della dea e del suo compagno è legato alle figure di Anat e del suo fratello-consorte Baal.
La dea è spesso rappresentata da una vacca selvatica, animale totemico che ritroveremo in moltissime altre raffigurazioni della Grande Madre, sotto le quali sembianze, appunto, la divinità maschile si sarebbe accoppiata nel deserto.
La sacralità della vacca la troviamo anche in una tradizione sacra fenicia, secondo quello che ci riporta Tirio Porfirio, filosofo neoplatonico, verso la metà del III sec. a.C., un fenicio non avrebbe mai mangiato carne di vacca. Ovviamente la tradizione riportata è molto più recente del periodo esaminato ma è sicuramente una “traccia” della sacralità dell’animale.
Il ciclo mitologico è costituito da vari episodi non sempre coerenti, (in molti casi Anat è prima sposa di El che, poi, diventa suo padre, e spesso confuso, come nel Vecchio Testamento, con Baal stesso. Dunque se Anat è Moglie del dio supremo da lei derivano tutte le cose così, oltre che sorella è anche madre di Baal.) connessi con culti della fertilità. Il dio Baal è così ucciso da Mot dio degli inferi, ma la sorella Anat lo ritrova e lo fa rivivere e con lui rinasce la natura, un mito molto simile a quelli esaminati in precedenza e a quelli che ancora esamineremo proprio a sottolineare la matrice comune di questi racconti.
Anche in questo mito la divinità maschile è legata al sacro albero. Un esempio sarebbe quello di EL, primo consorte di Anat e spesso confuso, anche perché i miti non sono ben definiti e presentano spesso, come già detto confusione, con BAAL.

Spesso il simbolo di El, il dio con le ali, è posto sopra il SACRO ALBERO, altro emblema di Asshur. In raffigurazioni più particolareggiate sopra lo stelo, a differenza della foto in questione, i fiori erano a volte sostituiti da melograni o coni di pino.
Inoltre la sacralità dell’albero visto come divinità la ritroviamo nei rituali di Primavera, durante i quali, ogni anno, veniva abbattuto un grande albero (abbattimento=morte) e poi alzato nel sacro recinto per successivamente coprirlo di drappi e doni (un po’ il nostro albero del Maggio).

Un altro interessante mito è presente proprio qui in Italia, quello tra VIRBIO E DIANA, le cui tracce ritroviamo nello studio di Frazer sul Ramo d’Oro:
“…Sulle sponde settentrionali del lago [ di Nemi, N.d.A.] si erigeva il bosco sacro e il santuario di Diana Nemorensis, la Diana del Bosco…In questo bosco sacro cresceva un albero attorno a cui e probabile vedere, anche a notte inoltrata, una truce figura. Nella destra teneva una spada sguainata e si guardava continuamente d’attorno…Quest’uomo era un sacerdote e quando un nuovo individuo voleva occupare il suo posto per prendere il sacerdozio doveva uccidere il suo predecessore…non prima però di aver strappato un ramo dal succitato albero…La strana regola non ha alcun riscontro in tutta l’antichità classica e non si può spiegare per mezzo di essa…”
Queste le parole del noto antropologo James Frazer. Il mito ivi presente si rifà alla leggenda di Virbio, giovane cacciatore che trascorreva la vita nei boschi a caccia di belve, avendo come unica compagna la vergine cacciatrice Artemide. Fiero di quella divina compagna, egli disdegnava le donne e questa fu la sua rovina. Afrodite, offesa dalla sua indifferenza, fece innamorare di lui la matrigna Fedra; e quando il giovane respinse le turpi offerte della donna, lei lo accusò falsamente presso il padre Teseo, il quale credette alle menzogne di Fedra. Teseo si rivolse allora al proprio padre Poseidone perchè vendicasse l’immaginario affronto. Mentre Virbio guidava il suo carro lungo le rive del golfo Saronico, il dio del mare gli mandò contro un toro feroce scaturito dalle onde. I cavalli, terrorizzati, si impennarono scaraventando Ippolito giù dal carro e lo trascinarono nel loro galoppo uccidendolo. Ma Diana, che amava il giovane, convinse il medico Esculapio a riportarlo in vita. Il mito è del tutto simile a quello già citato di Adone, Virbio è senza alcun dubbio l’immagine del Dio-Compagno della Dea precedentemente incontrato, l’archetipo di quei re-sacerdoti descritti nell’opera di Frazer, la cui vita, sempre spezzata da morte violenta, era legata ad un albero.
Se la tradizione del re del bosco è vista nell’ottica dei miti delle “Sacre nozze” ecco spiegato il perché del legame del dio-sacerdote ad un albero e il suo dover perire di morte violenta.

L’elenco potrebbe continuare ancora con le divinità Hittite Hepatu e Teshub, o con la dea Ma e il figlio-compagno dio delle tempeste, venerata nell’area della Cappadocia e poi arrivata tramite i romani in Italia e alla quale verrà dedicato il culto di Ma o Mamede la cui tracce possiamo trovare ancora oggi nel folklore italiano.
Divenuto infatti un santo cristiano con una vera e propria opera di sincretismo, il culto di San Mama lo troviamo ad esempio a Ca’ Campo, in provincia di Bergamo ove “la cappella è ufficialmente dedicata a San Pantaleone ma in realtà il culto popolare è tutto per san Mama, raffigurato come santo barbuto e con la palma del martirio, nella mano destra stringe una mammella.

Terminiamo il nostro viaggio tra la mitologia con la venere cretese, la dea dagli opulenti seni, associata a divinità maschili scarsamente importanti tanto da non avere un nome preciso come il dio delle asce bipenni di Creta o il toro bianco di Minosse.
La leggenda vuole infatti che Minosse, re dell’isola, chiedesse a Poseidone un bellissimo animale da immolargli. Il dio del mare mandò così al sovrano uno splendido toro bianco, ma l’avido re decise di tenerlo per se sacrificando alla divinità un altro animale, così, la divinità, colta da ira, fece infuriare la bestia che ingravidò Pasifae, la moglie del regnante, facendole procreare una creatura mostruosa. Al di là della veste classica del mito ritroviamo in esso l’accoppiamento della dea, rappresentata dalla regina e del dio raffigurato nel toro.
Proprio per capire meglio lo strettissimo legame tra il toro e la dea dobbiamo soffermarci di più su questo animale e sul suo simbolismo. Molti han pensato che l’associazione del toro o del bisonte con l’aspetto femminile sia dovuto al periodo di gestazione che per entrambi è nove mesi, in realtà Dorothy Cameron, in un suo lavoro, ipotizza l’associazione delle corna del toro con l’organo genitale femminile, le trombe di Falloppio, scoperte sicuramente dal primitivo durante operazioni di scarnificazione sui corpi dei morti.
Immaginiamo lo stupore del selvaggio quando, aprendo per la prima volta il ventre femminile, il “loco” dal quale proviene la vita, vede al suo interno un organo simile alle corna di un toro, e del resto questa “scoperta” la troviamo raffigurata in diversi vasi antropomorfi ove, rappresentante proprio all’altezza del bacino ci sono le corna taurine.
Ecco che il mito del Minotauro potrebbe esser considerato in questa nuova ottica, il labirinto altro non rappresenterebbe che l’utero della dea madre nel cui interno dimora il “toro universale”, l’organo genitale femminile che permette la vita e la procreazione.
Dopo questo breve excursus cerchiamo di tirare alcune ipotesi conclusive, soffermandoci su una analisi dei PUNTI COMUNI presenti in essi cercando di dare qualche spiegazione:
· il Dio maschile è sia Compagno che Figlio della dea,
· la dea assume spesso le sembianze o possiede gli attributi della vacca, suo animale totemico.

Erodoto stesso ne “Le Storie” ci descrive come le donne di Babilonia almeno una volta nella vita dovevano prostituirsi nel tempio della dea come somma offerta alla divinità:
“…è d’obbligo che ogni dona del paese, una volta durante la vita, postasi nel recinto sacro di Afrodite [il nome con cui lo storico identifica Inanna o Isthar N.d.A.] si unisca con lo straniero… […] quando una donna si asside in quel posto non torna più a casa se prima qualche straniero, dopo averle gettato del denaro alle ginocchia, non si sia congiunto a lei nel tempio…”
o come nel caso della prostituzione sacra dell’isola di Pafo che, secondo la leggenda, deriverebbe proprio dalle stesse sorelle di Adone che, fatta adirare la dea, furono condannate a darsi agli stranieri, e ancora in molte comunità dell’area cipriota ad esempio, una vergine, prima di potersi sposare e dunque “diventare donna” doveva prostituirsi ad uno straniero per denaro e poi offrire tali denari alla dea.

A Biblo invece, come riportato da Luciano, durante i giorni di lutto per la morte di Adone le donne dovevano tagliarsi i capelli e, se si fossero rifiutate, avrebbero dovuto concedere per un giorno intero i loro favori agli stranieri presenti e cedere i guadagni al tempio.
Sicuramente quest’ultima tradizione è posteriore ai rituali di prostituzione precedentemente descritti, infatti l’offerta della capigliatura sarà una forma più mitigata della stessa. Il perché della capigliatura nasce dall’idea che essa era messa in relazione, nell’antichità, con la vegetazione palustre. Ed ecco ancora una nuova traccia, i capelli come vegetazione, il loro taglio come morte della generazione per propiziare la rinascita.
Nelle tradizioni ebraiche il ricordo di queste usanze è ancora molto forte, così, ad esempio solo le ragazze vergini possono andar in giro con il capo scoperto e una volta che esse si sposano devono rasare i capelli e sostituirli con una parrucca.
E’ da questa concezione che deriverà poi l’idea di Dote, infatti senza dote nessuna donna si poteva sposare, e per ottenerla, una povera fanciulla poteva solo offrire il proprio corpo per procacciarsela:
· il dio subisce sempre un ciclo di morte e resurrezione in relazione con quello naturale e la sua novella vita è sempre legata alla dea,
· il dio è sempre legato all’elemento arboreo.

Per spiegare questi cicli dobbiamo fare delle osservazioni: tra i fenomeni naturali non vi è uno come quello della morte e della resurrezione che più si avvicina alla sparizione e alla ricomparsa della VEGETAZIONE. L’idea del ciclo solare è scarsamente applicabile o comunque successiva perché, anche se esso subisce un indebolimento durante il periodo invernale non subisce una vera e propria morte, idea smentita ogni giorno dal suo risorgere. Il dio è così un dio vegetazionale, come poi sottolineato dal suo stretto legame con l’ALBERO. Se dunque ipotizziamo che la “comparsa” del Dio sia in qualche modo successiva all’Androgino e legata all’agricoltura, si potrebbe così pensare che alla base del ciclo di morte e resurrezione sia il ciclo naturale dei campi, con la loro semina, crescita e morte.
Anche la stessa morte, sempre violenta, del Dio potrebbe così essere messa in relazione con la VIOLENTA DISTRUZIONE da parte dell’UOMO dei prodotti dei campi, falciati, battuti e poi ridotti in polvere.

Qualunque possa però essere la visione interpretativa di questi PUNTI COMUNI, la loro esistenza in miti di culture anche molto lontane tra loro avvalorano l’ipotesi di un culto UNICO, diffuso in un periodo che potremmo definire “Età dell’Oro”, ove le divinità erano la Grande Dea Generatrice e il suo Sposo.

Autore: Andrea Romanazzi
Cronologia: Preistoria

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