Il criptoportico di Alife, uno dei maggiori esempi di struttura architettonica di questo tipo dell’età augustea, qualche anno fa dopo secoli è stato finalmente «sterrato» in quanto nel corso dei secoli in esso erano stati accumulati detriti e materiali di risulta di ogni sorta.
Durante l’ultima guerra fu utilizzato dalla comunità alifana come rifugio per sfuggire alle retate dei tedeschi e ripararsi dal bombardamento del 13 ottobre 1943 durante il quale perirono ben 35 persone.
I criptoportici, costruiti durante tale periodo, erano adibiti ad uso pubblico e privato come strutture sottostanti ad edifici superiori, edifici forensi, mercati, portici, grandi serbatoi per raccolta di acqua, ecc.
Il monumento che l’antica «civitas allipharum» ha lasciato ai posteri, è una testimonianza della grandezza del passato che ha vissuto questa terra come protagonista nella crescita della nostra civiltà.
Costituito da tre bracci occupa una superficie di circa 689 mq con una altezza dal piano di calpestio di circa 6 m. Nel corso della “sterratura” sono stati raccolti diversi vasi, alcuni ben conservati e di altri solo frammenti, utilizzati per il commercio interregionale tra Alife ed altri centri.
Sono stati recuperati anche esemplari di anfore impiegate per il trasporto del vino, in modo particolare l’amineo, menzionato in una iscrizione sull’intonaco di un pilastro del criptoportico, e forse del famoso pallagrello, produzione tipica delle colline alifane. Va sottolineata anche la presenza di attrezzi agricoli e da falegnameria di fattura non molta diversa di quella di oggi.
I reperti raccolti nel corso degli scavi sono un indicatore interessante, si legge nell’opuscolo pubblicato in occasione dell’apertura al pubblico del monumento, della vita economica e sociale della città romana anche nei suoi aspetti domestici e quotidiani. Il vasellame e le ossa animali permettono di risalire alla dieta alimentare degli antichi alifani, basata soprattutto sullo sfruttamento intensivo dell’allevamento suino e anche intensamente di quello ovino, bovino e di animali da cortile.
Risulta che si consumava anche pesce d’acqua dolce e di mare, tra cui le pregiate ostriche provenienti da Baia, e si cacciavano fagiani e piccioni selvatici. I lavori, con le conseguenti indagini archeologiche, sono stati voluti dall’amministrazione comunale di Alife, pro tempore, nel quadro del Piano integrato territoriale Monti Trebulani-Matese ed affidate alla cattedra di Archeologia Medievale dell’università Suor Orsola Benincasa di Napoli in collaborazione e per conto della soprintendenza per i Beni archeologici di Caserta e Benevento.
Le indagini storico-scientifiche si sono svolte in condizioni ambientali particolarmente difficili in ragione della presenza all’interno del monumento di infiltrazioni di acque bianche e di condotti fognari.
Dopo quest’opera di recupero, sorge una domanda: il grande criptoportico alifano che funzione aveva durante il periodo romano? A ciò hanno cercato di rispondere studiosi di chiara fama, ma l’enigma resta irrisolto.
Durante l’ultima guerra fu utilizzato dalla comunità alifana come rifugio per sfuggire alle retate dei tedeschi e ripararsi dal bombardamento del 13 ottobre 1943 durante il quale perirono ben 35 persone.
I criptoportici, costruiti durante tale periodo, erano adibiti ad uso pubblico e privato come strutture sottostanti ad edifici superiori, edifici forensi, mercati, portici, grandi serbatoi per raccolta di acqua, ecc.
Il monumento che l’antica «civitas allipharum» ha lasciato ai posteri, è una testimonianza della grandezza del passato che ha vissuto questa terra come protagonista nella crescita della nostra civiltà.
Costituito da tre bracci occupa una superficie di circa 689 mq con una altezza dal piano di calpestio di circa 6 m. Nel corso della “sterratura” sono stati raccolti diversi vasi, alcuni ben conservati e di altri solo frammenti, utilizzati per il commercio interregionale tra Alife ed altri centri.
Sono stati recuperati anche esemplari di anfore impiegate per il trasporto del vino, in modo particolare l’amineo, menzionato in una iscrizione sull’intonaco di un pilastro del criptoportico, e forse del famoso pallagrello, produzione tipica delle colline alifane. Va sottolineata anche la presenza di attrezzi agricoli e da falegnameria di fattura non molta diversa di quella di oggi.
I reperti raccolti nel corso degli scavi sono un indicatore interessante, si legge nell’opuscolo pubblicato in occasione dell’apertura al pubblico del monumento, della vita economica e sociale della città romana anche nei suoi aspetti domestici e quotidiani. Il vasellame e le ossa animali permettono di risalire alla dieta alimentare degli antichi alifani, basata soprattutto sullo sfruttamento intensivo dell’allevamento suino e anche intensamente di quello ovino, bovino e di animali da cortile.
Risulta che si consumava anche pesce d’acqua dolce e di mare, tra cui le pregiate ostriche provenienti da Baia, e si cacciavano fagiani e piccioni selvatici. I lavori, con le conseguenti indagini archeologiche, sono stati voluti dall’amministrazione comunale di Alife, pro tempore, nel quadro del Piano integrato territoriale Monti Trebulani-Matese ed affidate alla cattedra di Archeologia Medievale dell’università Suor Orsola Benincasa di Napoli in collaborazione e per conto della soprintendenza per i Beni archeologici di Caserta e Benevento.
Le indagini storico-scientifiche si sono svolte in condizioni ambientali particolarmente difficili in ragione della presenza all’interno del monumento di infiltrazioni di acque bianche e di condotti fognari.
Dopo quest’opera di recupero, sorge una domanda: il grande criptoportico alifano che funzione aveva durante il periodo romano? A ciò hanno cercato di rispondere studiosi di chiara fama, ma l’enigma resta irrisolto.
Fonte: Il Mattino, 07 marzo 2011