Una volta, tanto tempo fa, nel deserto del Sahara si pescava. Tra 10 e 5 mila anni fa non era una distesa di sabbia come oggi, ma una regione caratterizzata da un paesaggio variegato, che alternava dune sabbiose costellate di piccoli laghi, a fiumi che scorrevano dalle montagne verso ampie pianure coperte da savana. Ed era densamente abitato, sia da animali selvatici, sia da comunità umane, prima di cacciatori-raccoglitori, poi di pastori.
Uno studio pubblicato sulla rivista Plos One, coordinato da Savino Di Lernia del Dipartimento di Scienze dell’antichità dell’Università Sapienza di Roma, e svolto in collaborazione con Andrea Zerboni del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Milano e con Wim Van Neer del Royal Belgian Institute of Natural Sciences di Brussels, rivela come la fauna ittica rappresenti la maggior parte dei resti animali emersi nel riparo del Takarkori, nel Sahara centrale libico, nel primo e medio Olocene.
Il deposito archeologico indagato ha restituito migliaia di ossa di pesce, corrispondenti a specie diverse e a individui di grandi dimensioni, oltre un metro di lunghezza, paragonabili a quelli che oggigiorno vivono nel fiume Nilo o nei grandi laghi africani. Tutti i resti animali restituiti dal riparo del Takarkori, più di 17.500, sono stati identificati come scarti alimentari, grazie ai segni di taglio e di cottura che presentavano; di questi, solo il 19 per cento è costituito da mammiferi, uccelli rettili e molluschi (gli anfibi sono l’1 per cento del totale) mentre il restante 80 per cento è riconducibile alla fauna ittica.
La datazione dei resti ha attestato la graduale riduzione della fauna ittica a favore dei mammiferi: dalla predominanza ittica pari al 90 per cento tra gli anni 10.200-8.000, si è arrivati a circa il 40 per cento di apporto ittico tra il 5.900-4.650; questo dato consente di apprezzare la progressiva affermazione della pastorizia nel Sahara, durante la quale la risorsa ittica ha gradualmente perso importanza, per scomparire intorno ai 5000 anni fa.
L’analisi più approfondita della tipologia di fauna ittica ha poi consentito di delineare ulteriormente l’orizzonte temporale di questo passaggio, attraverso l’affermazione di una specie di pesce su un’altra. Nel loro insieme pesce gatto e tilapia costituivano la maggioranza tra i resti emersi; se però in una fase iniziale la tilapia è risultata la specie prevalente tra le due, i ricercatori hanno registrato nel periodo più recente, un’inversione di questa proporzione e il pesce gatto, che grazie al suo sistema respiratorio è in grado di sopravvivere in acque poco ossigenate e a basso fondale, è diventato predominante: questa tendenza rappresenta un indizio prezioso nella ricostruzione del processo di progressivo inaridimento della regione e della sua successiva desertificazione.
“La presenza di specie tipiche dell’Africa orientale ha permesso di ricostruire la progressiva migrazione di pesci dal Nilo al centro del Sahara, avvenuta quando l’ambiente era più umido e offriva delle vie d’acqua tra loro connesse – spiega l’archeologo della Sapienza Savino di Lernia – e questo rende possibile ricostruire l’antico reticolo idrografico della regione Sahariana e la sua interconnessione con il Nilo, fornendo informazioni cruciali sui drammatici cambiamenti climatici che hanno portato alla formazione del più grande deserto caldo del mondo”.
Questa complessa storia è conservata nel deposito archeologico del riparo di Takarkori, nella Libia sudoccidentale indagato dal team della Sapienza guidato dall’archeologo Savino di Lernia: una località privilegiata per comprendere la complessa interazione tra le comunità archeologiche sahariane e l’ambiente in cui vivevano, in cui è stata attestata la prima evidenza di coltivazione di cereali selvatici e di uso di latte animale per attività casearie.
Fonte: www.repubblica.it, 20 feb 2020