Come fu che diventammo umani? È uno dei grandi interrogativi a cui tenta di rispondere la scienza ancora oggi, perché sono tante le questioni aperte nello studio dei nostri antenati e di quello delle specie umane che li hanno preceduti o accompagnati per un lungo arco di tempo. Scordatevi la paleoantropologia lenta e polverosa di decine di anni fa. Ora grazie a tecniche di analisi genetica e di indagine dei fossili sempre più sofisticate, e anche grazie all’esplosione delle neuroscienze e del loro contributo in ambito evolutivo, la ricerca che indaga sulle nostre origini è più viva che mai, come illustra Il cammino dell’uomo, il secondo volume della collana Le Frontiere della Scienza, in edicola a 6,90 euro in più con il numero di aprile.
In effetti, la raccolta di undici articoli già pubblicata su «Le Scienze» e che hanno come tema l’evoluzione di Homo sapiens è ricca di colpi di scena ancora oggi irrisolti. Per esempio, per lungo tempo i paleoantropologi hanno ipotizzato che gli esseri umani discendessero da un antenato simile allo scimpanzé e che i primi fossili umani fossero riconducibili tutti a una sola linea di discendenza. Questo scenario però è stato smentito da scoperte recenti, come spiega uno degli articoli, le quali hanno invece suggerito che l’ultimo antenato tra uomo e scimpanzé non somigliava a quest’ultimo e che i nostri primi antenati in Africa non erano soli.
Quello appena descritto è un classico della paleoantropologia degli ultimi anni, ovvero la messa in discussione di uno scenario evolutivo ritenuto solido, che come in una reazione a catena porta a modificare anche altri scenari collegati, rendendo il quadro del cammino di Homo sapiens poco chiaro, ma forse per questo ancora più affascinante. Come nel caso della scoperta nel 2004 sull’isola indonesiana di Flores di fossili di una specie umana piccola e relativamente primitiva dal punto di vista morfologico, che avrebbe convissuto con la nostra specie fino a 13.000 anni fa. Una scoperta che ha sconvolto diversi ambiti della paleoantropologia e delle scienze evolutive, visto che prima della comparsa di Homo floresiensis nella galleria dei nostri antenati la documentazione fossile indicava che l’ultimo nostro parente con cui avevamo convissuto era l’uomo di Neanderthal, scomparso misteriosamente circa 30.000 anni fa.
Da quel momento in poi eravamo considerati gli unici sopravvissuti del nostro genere, e invece tutto è stato messo in discussione dal cranio dell’uomo di Flores, che poteva ospitare un cervello di 400 centimetri cubi, un terzo del nostro. Ed è stato messo ulteriormente in discussione nel 2009 dalla scoperta nei monti Altaj, in Siberia, di fossili datati 40.000 anni fa di un’altra misteriosa specie umana del passato, l’uomo di Denisova, che avrebbe convissuto con la nostra specie per un’altra trentina di migliaia di anni.
Homo floresiensis e Homo neanderthalensis sono a modo loro esempi di interrogativi di tipo diverso che ancora oggi danno tanto lavoro ai ricercatori. Se l’arrivo del primo ha letteralmente rivoluzionato la paleoantropologia, che addirittura ancora dibatte sulla sua collocazione nella galleria dei nostri antenati, nel caso dei Neanderthal il quadro è relativamente più chiaro, ma ancora siamo lontani dallo scrivere la parola fine, come illustra una serie di articoli in cui si fa il punto sulle capacità cognitive, sulle relazioni tra la nostra specie e quella neanderthaliana, e sulla sua misteriosa fine.
Già da ora si può scommettere su nuove sorprese riguardo al cammino evolutivo che ha portato a Homo sapiens. L’innovazione delle tecniche di sequenziamento genetico inizia a dare indicazioni su flussi di geni tra specie umane diverse e coeve. Il nostro passato quindi potrebbe essere ancora più intricato di quanto si possa pensare.
Fonte: Le Scienze.it, 2 apr 2014