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Gennaro D’Orio. L’eruzione, l’esame del Dna riscrive la storia degli ultimi giorni di Pompei.

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E’ stata avviata circa dieci anni fa, la mappatura completa del Dna disponibile, estratto dai calchi delle vittime dell’eruzione, che riscrive la storia degli “ultimi giorni di Pompei”. E stando ai risultati attuali, il quadro sembra completo e scientificamente esaustivo.
Oggi come oggi, infatti, molte ricostruzioni, basate sull’aspetto e la posizione dei corpi rinvenuti durante lo scavo, si sono rivelate inesatte.
Una madre che proteggeva un bambino, una delle testimonianze, era in realtà un uomo. Famiglie che non sono tali e società cosmopolita. Cambia la storia scritta, a partire dalla riscoperta di Pompei nel 1748.
In una ricerca multidisciplinare internazionale, pubblicata su Current Biology, guidata dall’Università di Firenze, dall’Università di Harvard, dal Max Planck Institute di Lipsia, su istanza scientifica del Parco Archeologico di Pompei, le prove del Dna mostrano che i sessi e le relazioni familiari degli individui non corrispondono alle interpretazioni tradizionali, che erano state formulate.
Il team di ricercatori ha estratto il Dna dai resti scheletrici, assai frammentati e mescolati al gesso, traendolo da 14 degli 86 calchi che erano all’epoca in fase di restauro. Metodo, questo, che ha permesso di determinare con precisione le relazioni genetiche, il sesso e l’ascendenza. E ciò che è stato scoperto, è in gran parte in contrasto con le ipotesi basate esclusivamente sull’aspetto fisico e il posizionamento dei calchi.
“Questo studio, ha affermato David Caramelli, docente di Antropologia all’Università di Firenze, dimostra quanto l’analisi genetica possa arricchire notevolmente narrazioni elaborate sulla base di dati archeologici. Queste scoperte sfidano interpretazioni di lunga data, come l’associazione dei gioielli alla femminilità o l’interpretazione della vicinanza fisica come indicatore di relazioni biologiche. Ugualmente i dati genetici complicano le semplici narrazioni di parentela: nella Casa del Bracciale d’Oro, che è l’unico sito per il quale abbiamo dati genetici di più individui, i quattro individui comunemente interpretati come genitori e i loro due figli, in realtà non sono geneticamente imparentati”.
David Reich, dell’Università di Harvard, ha spiegato: “I dati scientifici che forniamo non sempre sono in linea con le ipotesi comuni. Un esempio degno di nota è la scoperta che un adulto che indossava un braccialetto d’oro e il bambino che teneva in braccio, tradizionalmente interpretati come madre e figlio, sono risultati essere un maschio adulto e un bambino non imparentati. Allo stesso modo, una coppia di individui che si pensava fossero sorelle, o madre e figlia, in realtà include almeno un maschio genetico. Queste scoperte sfidano le ipotesi tradizionali”.
I dati genetici hanno offerto, altresì, informazioni sull’ascendenza dei pompeiani, che avevano background genomici diversi, evidenziando la natura cosmopolita dell’Impero romano, che riflette modelli più ampi di mobilità e scambio culturale.
“Inoltre, ha aggiunto David Caramelli, è possibile che lo sfruttamento dei calchi come veicoli per la narrazione abbia portato alla manipolazione delle loro pose e del loro posizionamento da parte dei restauratori in passato. I dati genetici, insieme ad altri approcci bioarcheologici, offrono l’opportunità di approfondire la nostra comprensione delle vite e dei comportamenti delle persone che furono vittime dell’eruzione del Vesuvio”.
Il direttore del Parco di Pompei, Gabriel Zuchtriegel, afferma che “le analisi del DNA antico sono ormai da anni parte dei protocolli di studio del Parco di Pompei, e non solo per quello che riguarda le vittime umane: altre linee di ricerca riguardano, ad esempio, le vittime animali. Allo stesso modo, il Parco, attraverso il laboratorio di ricerche interno, coordina una serie di progetti di ricerca relativi alle analisi isotopiche, alla diagnostica, alla geologia e alla vulcanologia, e non ultima la reverse engineering. Tutto questo contribuisce a una visione più completa e moderna dell’interpretazione dei ritrovamenti archeologici, e non solo: Pompei si trasforma in un vero e proprio laboratorio per la creazione di nuove metodologie, nuove risorse e confronti scientifici. In quest’ottica, questo studio si configura come un tassello di un vero e proprio ribaltamento di prospettiva, in cui il sito stesso si pone al servizio dell’archeologia e della ricerca”.
Dal Dna di un antico abitante della Pompei di epoca imperiale, è stata individuata per via genetica una vistosa patologia. La ricerca multidisciplinare si è svolta sui resti ossei di un individuo ritrovato nella “Casa del Fabbro”, uno dei numerosi edifici eccezionalmente ben conservati, situati a Pompei. Dagli esami è emerso che l’uomo era affetto da una forma di spondilite tubercolare che era arrivata a colpire anche lo scheletro. Lo studio internazionale, dal titolo: “Ritratto bioarcheologico e paleogenetico di due pompeiani morti durante l’eruzione del 79 d.C.”, è stato appena pubblicato da Nature Scientific Reports, avvalendosi della collaborazione tra il Laboratorio di Antropologia Fisica dell’Università del Salento, il Centro di Antropologia Molecolare per lo studio del Dna antico dell’Università di Roma “Tor Vergata”, il Laboratory of Molecular Psychiatry dell’Università della California di Irvine e il Lundbeck Foundation Geo Genetics Centre dell’Università di Copenhagen. Intanto, da anni, si cerca di analizzare geneticamente i reperti antropologici provenienti dalla più che storica città vesuviana. Le analisi paleopatologiche hanno, come detto, identificato la presenza di spondilite tubercolare (morbo di Pott), malattia endemica in epoca romana imperiale, come riportato nelle fonti antiche di Celso, Galeno e Celio Aureliano, e Areteo di Cappadocia, anche se è raro ritrovarla in contesti archeologici, perché soltanto in piccole percentuali manifesta alterazioni scheletriche.
In conclusione, i risultati di questo studio forniscono dati molto preziosi su individui morti durante l’eruzione del 79 d.C., che ampliano le informazioni biologiche, paleopatologiche e genetiche, confermando e dimostrando la possibilità di analizzare il Dna dai resti umani provenienti da Pompei, estratto dal 1998, quale uno dei più radicati ambiti di analisi scientifica nel sito.
Questo ambizioso progetto, nato dalla consapevolezza che il deposito vulcanico abbia agito come “guscio” sui resti dei pompeiani, di fatto evitando che venissero “inquinati” da fattori esterni, ha portato alla “vincita” di un Prin (Progetti di Ricerca di Rilevante Interesse Nazionale), finanziato per 800mila euro, dal titolo “Pompeii molecular portrait”.
«Ogni dato in più che risulta dalle indagini, ha dichiarato il direttore Gabriel Zuchtriegel, è un’importante conquista per la ricerca scientifica che contribuisce a completare il quadro storico di un’epoca e di una civiltà. È frutto di collaborazioni interdisciplinari, di un lavoro di squadra lungo e paziente, che necessita anche di una volontà comune di divulgare notizie rigorose. Il Parco archeologico di Pompei è campo privilegiato di sperimentazione di tali studi, ed è il detentore dei conseguenti risultati, che raccolti e comparati sono in grado di assicurare una comunicazione corretta della ricerca archeologica, antropologica e in generale scientifica».

Autore: Gennaro D’Orio – doriogennaro@libero.it

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