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Mario Zaniboni. Carro di Waldalgescheim.

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Il 18 ottobre 1869, il contadino Peter Heckert stava lavorando in un suo campo, nel territorio di Waldalgesheim in Germania, alla confluenza fra il fiume Reno e il fiume Nahe, per preparare il suolo alla coltivazione della barbabietola, quando si imbatté in un gruppo di oggetti ai quali, sul momento, non diede né peso né importanza; solamente quando qualcuno lo informò che avrebbe potuto guadagnare un po’ di denaro vendendoli, fu sollecitato a proporli. E infatti, un antiquario di Bingen li acquistò per la bella sommetta, per quei tempi, di 450 talleri.
Hecckert, galvanizzato da tale successo, riprese a scavare con impegno, ed ebbe la fortuna di reperire un’altra trentina di pezzi, fra i quali erano anelli d’oro e un vaso di bronzo, che ora sono conservati nel Museo di Stato Renano (Rheinischen Landesmuseum) di Bonn, dove fanno bella mostra di sé.
Però, l’importanza del ritrovamento fu riconosciuta solamente nel XX secolo, quando datarono i reperti, stabilendo che sicuramente erano nati nel IV secolo a.C.
Peccato che nessuno si sia preoccupato di disegnare una mappa del sito e che ne sia stata dimenticata l’esatta ubicazione, perché sarebbe potuto essere il luogo di una serie di ricerche e di scavi fatti nella giusta maniera.
E bisognò aspettare il 1997 per vedere qualcuno che fosse interessato a quella vasta area. Questi fu il professor Michael Schönherr, che si diede da fare per organizzare, insieme con gli archeologi di stato, ricerche nell’intera zona destinata alla coltivazione, individuata su frammenti di documenti e su nient’altro. Questi, in merito all’avviamento di una serie di scavi, non ne vollero sapere, mentre si raccomandarono che non si divulgasse la possibile posizione del sito, per non invitare un’iniziativa analoga da parte di saccheggiatori, che sicuramente non avrebbero perduto tempo, come stavano facendo loro, nel decidere cosa fare. Comunque, quel luogo, che purtroppo non è stato studiato dagli archeologi, oggi è coperto da costruzioni.
I ricercatori si diedero da fare per conto loro e, alla fine, ebbero la soddisfazione di trovare una tomba risalente al 330 a.C., periodo appartenente all’età del ferro di La Tene della Renania; era un vano di legno, posto sotto un cumulo di terreno, subito ritenuto molto importante, perché forniva notizie risalenti ai primordi della storia dei Celti.
Fra gli oggetti rinvenuti erano gioielli e ornamenti di uso femminile, mentre mancavano reperti appartenenti al sesso maschile, quali armi, armature, elmi o altro: questo fece presumere che la tomba fosse la sepoltura di una donna e sicuramente ricca e magari nobile. E, in effetti, si ritenne che l’occupante del tomba fosse una donna di una trentina di anni, anche se qualcuno ha pensato che potesse essere un uomo travestito da donna, essendo il cranio più grande di quello di una femmina.
Gli oggetti posti a fianco della defunta sono veramente importanti e di valore. I gioielli, d’oro, sono un anello da braccio, due braccialetti e un torque, che è un ornamento rigido del collo. Inoltre, furono reperiti un flagon (flacone, brocca o caraffa, che dir si voglia), un secchio e varie placche: tutti oggetti di bronzo e decorati con figure realizzate in bassorilievo. Il flagon con ogni probabilità è campano e risale al IV o al III secolo a.C. E’ decorato con il viso di un uomo, sopra il piedistallo che sopporta un corpo panciuto terminante in cima con un beccuccio tubiforme; il coperchio è arricchito da una presa a forma di cavallo. E, considerato che il flacone e il secchio si trovavano al di sotto di tutto il resto, si presume che l’arricchimento della tomba sia avvenuto in tempi diversi. Le lavorazioni denunciavano l’abilità dei costruttori di questi reperti. E fra i vari pezzi erano pure parti costitutive di un carro di guerra a due ruote, che erano appoggiate a un cumulo posto di lato.
La scoperta fu importante, perché riguardò il carro di guerra, struttura che rappresentò un’invenzione di notevole peso a proposito dei mezzi militari utilizzati non solo durante l’età del ferro, ma anche per i lunghi secoli successivi nelle praterie dell’Europa centrale, tanto da diventare il simbolo di riconoscimento della civiltà celtica di allora.
Costruttivamente, non erano manufatti particolarmente robusti, tutt’altro, facili da rompersi oppure da rovesciarsi, però essere attaccati da un linea di tali carri, ciascuno trainato da una coppia di cavalli, per un nemico psicologicamente era un pericolo che, potendo, si evitava, invitandolo a darsi alla fuga disordinata. Della sua importanza parlò pure Giulio Cesare nella sua opera storica “De Bello Gallico”, riportando che i conduttori erano veramente abili, capaci di fare scorrere il carro anche nei terreni più accidentati e in elevata pendenza; dal carro si lanciavano giavellotti nel mucchio dei nemici e il rumore assordante dei carri era uno spauracchio che agiva negativamente sul loro morale; i soldati sul carro, una volta raggiunto il grosso dell’esercito nemico, scendevano per combattere a piedi e, in questo caso, se le cose fossero andate male, risalivano precipitosamente sul carro per guadagnare una notevole distanza dai nemici. In definitiva, ai tempi di Cesare, il carro di guerra, che continuava a essere usato dai Celti, era già superato, facendo intendere che il loro uso derivava semplicemente dal desiderio di fare paura ai nemici, vale a dire che, più che un’arma nel vero senso della parola, era un mezzo utile per agire psicologicamente sulla volontà del nemico.
Da come si presentavano, si intende subito, senz’ombra di dubbio, che i carri celti erano mezzi militari appartenevano ai celti nobili, ma anche che di veramente militare avevano ben poco.
I carri ricordati da Cesare erano forniti di due ruote, una forma innovatrice dei carri a quattro ruote che, appartenenti al ceto nobile, furoreggiarono prima del V secolo a.C. Comunque, come ricordato più sopra, secondo Cesare, i carri dei Celti erano antiquati, perché sicuramente in battaglia erano più efficaci due cavalieri su due diversi destrieri autonomi nei loro movimenti che non un paio di soldati su un carro che pure lui richiedeva il ricorso a due cavalli. Certo è che, per un nemico, il vedersi venire contro di gran carriera un fronte di carri di guerra trainati ciascuno da un paio di cavalli doveva essere terrificante e terrorizzante, ma ai fini dei risultati di una battaglia sicuramente una squadra di cavalieri sarebbe stata più proficua nei risultati.
Se ciò che si ritrova nella narrativa poetica di gesta eroiche dell’Irlanda di Cù Chulaìnn fosse vero, cioè che i carri di guerra fossero forniti di falci e di lame fissati agli assi, e pertanto pericolosamente rotanti, sicuramente fra i vari reperti recuperati fino a oggi nelle ricerche archeologiche qualcosa del genere sarebbe emerso, ma purtroppo, finora, niente di tutto questo. In tal modo si tende a pensare che si tratti della fantasia di uno scrittore, legata ad antiche leggende provenienti dalle aree greca e persiana, a meno che in futuro non venga rinvenuto qualche elemento che confermi il suo pensiero.
E invero, piano piano in tutto il mondo noto del passato, dall’Europa alla Cina, il carro di guerra restò superato e abbandonato nei confronti della cavalleria. Pertanto, esso rimase solamente come un elemento della moda per i Celti.
Le ruote del carro di Waldalgesheim erano in legno a raggi con i cerchioni e i mozzi in ferro e in ferro erano pure le loro giunzioni agli assali. La parte portante era una piattaforma, sempre in legno, con attorno fiancate in legno o vimini. Il carro era dotato di un asse al quale veniva legata una coppia di cavalli, tenuta insieme da un giogo. Quali accessori erano le redini, morsi flessibili, imbracatura e finimenti, tutti oggetti arricchiti da anelli di metallo e squisitamente adornati.
Come detto, il carro non aveva nulla di militaresco, ma era semplicemente un elemento legato al costume e al folklore di quell’antico popolo e, come tale, è entrato nella sua storia.

Autore: Mario Zaniboni – zamar.22blu@libero.it

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