Nel 1908, una spedizione archeologica italiana, guidata da Luigi Pernier e Federico Halbherr, fece ricerche nel Palazzo di Phaistos (nome della città che ora si chiama Festo, sull’isola di Creta) ed il 3 luglio trovò un oggetto che lasciò meravigliati i ricercatori.
Si stava scavando ai piedi di un muro appartenente alla cultura minoica, caratteristica dell’architettura locale dell’età del bronzo (3400-1100 a.C.), in una cella seminterrata, piena dei detriti dovuti allo sfondamento del tetto. Quando il crollo sia avvenuto non è noto, però non è da escludere che sia coinciso con lo scoppio eruttivo del Vulcano Santorini della metà del II millennio a.C., cui è seguito un tremendo terremoto con effetti disastrosi in una vasta area dei territori sul Mediterraneo.
Il reperto era accompagnato da pochi oggetti di valore, intonaco, terriccio scuro, ceneri e ossa bruciate di natura bovina. Questo particolare, che non può dare nessuna indicazione precisa, ha indotto gli studiosi a ritenere che il disco non sia stato realizzato dove è stato rinvenuto. Comunque, in base all’esame stratigrafico si è riconosciuto che l’età del ritrovamento è valutabile attorno al 1700 a.C., anche se diversi studiosi hanno ipotizzato date diverse, antecedenti o successive, in base alla documentazione disponibile ed alla sua interpretazione; in ogni modo, il vasto intervallo individuato da loro resta compreso fra il 1850 e il 1300 a.C.
Il reperto è un disco di terracotta del diametro di 16 centimetri e dello spessore di 16 millimetri, che porta, distribuiti su entrambe le facce, 241 segni impressi quando l’argilla era ancora fresca, prima della cottura ad elevata temperatura, usando degli stampini (sigilli, bolli, punzoni: come vogliamo chiamarli?).
Questi, che sono impressi a gruppetti separati fra di loro da linee, sono disposti a spirale, partendo dal centro per arrivare all’orlo, svolgendosi in senso orario, senza lasciare spazi vuoti.
Che essi rappresentino una forma di scrittura pare che non ci siano dubbi; ma i dubbi non solo ci sono, ma sono anche grossi, quando si va a cercare di individuare di quale scrittura si tratti, perché di tutte quelle note dell’antichità nessuna ne presenta una similitudine, anche se lontana. Inoltre, ogni tentativo di decrittare quello scritto, supposto che lo sia, è andato deluso.
Per quanto riguarda l’autenticità del disco di Festo, in linea di massima gli archeologi sono d’accordo, anche perché, come si rileva nella relazione del Pernier, durante quegli scavi si è trovata un’arma, l'”Ascia di Arkalochori” sulla quale si sono trovati dei segni che, pur non essendo identici a quelli del disco, ne hanno una certa rassomiglianza.
E infatti, come accennato più sopra, la maggior parte degli studiosi si è trovata d’accordo sul fatto che non si tratti di una “bufala”, ma alcuni di loro, insieme con il mercante d’arte Jerome Eisenberg, sono stati dell’avviso che si sia trattato di un falso ben congegnato.
Già nel 1908, anno del ritrovamento, il Times insisteva sulla notizia che il disco non era stato sottoposto all’esame della termoluminescenza, così come, a distanza di cento anni, ribadiva Robinson sulla sua rivista, secondo il quale il ricorso alla stessa taglierebbe la testa al toro.
Per quanto attiene all’esecuzione, i segni impressi sull’argilla fresca prima della cottura sono dovuti all’uso di stampini, diversi l’uno dall’altro, serviti a formare, come anticipato, una spirale che dal centro si snoda fino all’orlo del disco. E se si accetta che di uno scritto si tratti e che i segni rappresentino singole lettere, allora molto più di tremila anni fa era stata inventata una stampa a caratteri mobili ante litteram, che renderebbe la scoperta di Gutenberg il ritorno di un qualcosa fatto da altri tanti secoli prima, come ebbe a rilevare Herbert E. Breckle, linguista tedesco, nella sua opera Gutenberg-Jharbuch pubblicata nel 1983; e pure Benjamin Schwartz si associò a questa ipotesi.
Interessante è il parere espresso da Jared Diamond nella sua opera “Armi, acciaio e malattie”: secondo lui l’uomo ha delle idee e le esprime mettendole in atto, ma, se non se ne cava subito un risultato, queste vanno immediatamente nel dimenticatoio, perché ritenute non importanti; infatti, a proposito dello scritto (chiamiamolo così) sul disco di Festo, egli pensa che, tutto sommato, sarebbe stato meglio scrivere direttamente sull’argilla senza ricorrere agli stampini.
La conclusione, comunque, e dispiace riconoscerlo, è deludente, perché purtroppo, malgrado l’intervento di studiosi di lingue del passato di tutto rispetto e di grande competenza, con l’appoggio di linguisti dilettanti pieni di buona volontà, non si è giunti ad un “dunque” definitivo. Anzi, chi ne sa di più è nella convinzione che, se non si aggiungerà alla documentazione altro materiale significativo, il disco di Festo resterà per sempre uno dei tanti misteri irrisolti provenienti da un passato lontano sia come contenuto sia come ubicazione del luogo di origine.
Autore: Mario Zaniboni – zamar.22blu@libero.it