Voghenza è uno dei siti storici più antichi della provincia di Ferrara, insieme con i territori di Bondeno, sito nella parte occidentale della città, e Comacchio, Argenta e Ostellato, in quella orientale, già nel periodo Neolitico, dall’8000 al 3500 a.C. Quest’ultimo territorio è sempre stato soggetto alla volubilità di “sua maestà” il Po, come lo dimostrano le variazioni del suo letto, della portata delle sue acque ed i vari interramenti suoi e dei suoi affluenti e dei corsi d’acqua autonomi della zona. Questo è quel poco che è dato sapere in merito al capriccioso delta del Po.
Qui sopravvivevano piccoli insediamenti di contadini, che a fatica traevano il necessario per il mantenimento delle famiglie, anche perché il terreno coltivabile era scarso a causa del dominio delle paludi, alimentate dalle piene e dai conseguenti allagamenti, e oltretutto infestate dalle micidiali zanzare.
Gli abitanti, brava gente, si davano da fare e si adoperavano per attuare una bonifica dei paludosi terreni malsani, che dominavano il territorio della futura Ferrara, preparando terreni per l’agricoltura, escavando canali per fornire loro l’acqua necessaria alle colture agricole e per scolare i terreni pregni d’acqua, aprendo strade.
In quel periodo, attorno al 450 a.C., alla foce dello Spinetico, un ramo del Po, era fiorente la città di Spina, che serviva da centro di collegamento fra il mondo etrusco e quello greco, impostato soprattutto sullo scambio di manufatti ceramici orientali e prodotti agricoli e da macellazione di animali emiliani e romagnoli. Ma, per l’allontanamento dalla città della costa a causa dell’abbondante sedimentazione di materiali lapidei dovuti all’erosione di rocce delle Alpi e degli Appennini e portati in sospensione dai corsi d’acqua, la sua importanza decadde a favore di Ravenna e, a partire indicativamente dal 225 a.C., ebbe delle difficoltà tali da costringere il popolo ad andarsene; così, piano piano, Spina fu abbandonata e, infine, scomparve del tutto dalla superficie della Terra; solo nel XX secolo ne sono state faticosamente ritrovate le vestigia.
Questo cambiamento sostanziale del territorio giocò a tutto vantaggio del centro di Voghenza, situato nel bel mezzo della Pianura Padana orientale (oggi a una quindicina di chilometri dal centro cittadino nella direzione est sud-est), sul corso d’acqua chiamato Spinetico al tempo degli Etruschi e divenuto poi Eridanus a quello dell’Impero Romano, e su un ramo del Reno chiamato Avenza (da cui forse deriva il nome dell’abitato Vicus Haventia, divenuto poi Voghenza, o Vicus Abentinus).
In tal modo, fra il I e il III secolo d.C., Voghenza, che forse fu il primo insediamento dell’impero romano da queste parti, praticamente divenne il sostituto di Spina, quale punto di incontro e di smistamento commerciale fra il vicino Oriente e l’intera Pianura padana, attraverso il porto di Ravenna. Questa nuova situazione portò un fiorente benessere economico con la complicità di importanti vie di comunicazione terrestri. Infatti, erano molto trafficate la via Aemilia Minor, dovuta al console M. Emilio Lepido del 157 a.C. che, partendo da Bologna giungeva ad Aquileia; la via Popilia, opera del console P. Popilio Lenate che, nel 132 a.C., collegava Rimini a Padova; inoltre, esisteva una rete di vie minori che ne consentiva i collegamenti; infatti i corsi d’acqua e le strade favorivano lo svolgimento del traffico senza difficoltà. Questo centro, perciò, nel periodo dell’Impero Romano divenne di grande interesse, tanto che furono parecchi i funzionari che, giunti dall’Urbe quali controllori e amministratori dei saltus, cioè delle grandi tenute appartenenti all’Impero stesso, vi si stabilirono definitamente.
In questo contesto, lentamente ma con continuità, la popolazione ebbe modo di crescere e di estendere i terreni coltivabili, attorno alla sede vescovile, il cui primo vescovo si ritiene sia stato Oltrando, vissuto indicativamente attorno all’anno 330 d.C.; altro vescovo fu Marcellino, consacrato dal ravennate Pier Crisologo attorno al 425.
Questa diocesi continuò la sua attività fino al VII secolo. Si può ricordare, per inciso, che l’ultimo vescovo di Voghenza e Ferrara, che allora esisteva solamente come fortificazione militare (castrum), fu Maurelio, un sacerdote siro, venerato come santo dalla Chiesa cattolica, proveniente dalla città di Edessa del Medio Oriente; putroppo fece una tragica fine, perché fu ucciso e decapitato dal fratello Rivallo il 7 maggio 644 a Edessa, dov’era ritornato (tragedia meritevole di essere narrata in altra sede) e che, dopo essere canonizzato santo, divenne compatrono della città di Ferrara con San Marco.
Fra il V e il VI secolo d.C., quando il territorio fu teatro dell’interrimento dei vari corsi d’acqua che lo attraversavano, ci fu la nascita del cosiddetto castrum di origine bizantina verso occidente, sull’isola formata dal Volano e dal Primaro, due rami del Po, che, più tardi, rappresentarono il punto di partenza per la fondazione della città di Ferrara. Questa piccola cittadella fu un invito agli abitanti di Voghiera a spostarsi verso zone più sicure dalle scorrerie dei pirati soprattutto balcanici. E con gli abitanti, si ritiene che nel VII secolo sia stata pure spostata la sede della diocesi, anche se i vescovi continuarono a ritenersi di Ferrara e Voghiera; comunque, il nome della città, per la prima volta, compare come attributo in un documento nel 965, dove il vescovo si nominò come Episcopus Ferrariensis.
Quando il castrum di Ferrara si trasformò in città nel vero senso della parola, l’importanza di Voghiera fu piano piano ridotta, tornando a essere un centro di campagna; ciò anche perché il Po, che scorreva presso le mura meridionali della città estense, era diventato un porto fluviale di grande interesse commerciale, togliendo a Voghenza tutta l’importanza fino ad allora goduta.
Voghenza rimase un paese agricolo senza caratteristiche particolari e ciò finché, nel 1976, vicino all’attuale paese, casualmente l’aratro di un agricoltore fu fermato da un oggetto in marmo. Egli comunicò quanto era accaduto agli archeologi locali i quali fecero eseguire scavi che portarono alla luce una lastra funeraria ed un sarcofago, con ben evidenti i segni lasciati dall’aratro. Incoraggiati dal quel risultato, fecero estendere gli sterri, scoprendo un’area sepolcrale di notevole interesse, datata fra il I e la metà del III secolo d.C. Era un’area sepolcrale del periodo dell’Impero Romano, nella quale furono trovate molte lapidi, dalle cui iscrizioni si sono potuti conoscere i nomi e le attività svolte dai defunti, perlopiù lavoratori e contadini, e quelli degli amministratori dei territori distribuiti nel delta del Po, appartenenti alla corte imperiale. Il regime ballerino di quel ramo del Po, scomparso durante il III secolo d. C., con le sue continue inondazioni, ha portato all’accumulo di sedimenti che hanno coperto la necropoli con un grosso strato, nascondendolo e contemporaneamente proteggendolo, tanto da favorirne la conservazione fino a noi.
Gli scavi, che continuarono fino a essere completati nel 1983, individuarono una necropoli con sessantasette fra resti tombali a inumazione, eseguite in laterizio, marmi di Verona rosa e bianchi e legno, e a cremazione; queste ultime erano evidenziate da anfore che avevano lo scopo simbolico di un’unione fra vivi e morti, rendendola ancora più stretta mediante la rottura della loro base; infatti, in questa maniera si apriva il pasaggio delle offerte votive in occassione della commerazione dei defunti.
Inoltre, furono recuperati reperti interessanti: monete, oggetti in ceramica di vario tipo ed uso, vasi incensieri, monili d’ambra, ornamenti d’oro, balsamari di vetro.
Interessante era l’abitudine, che si aveva ai tempi dell’impero Romano, di disporre le necropoli in modo parallelo alle strade di grande comunicazione, affinché i viandanti potessero facilmente leggere le iscrizioni che ricordavano i morti. Ebbene, pure a Voghenza si riconosce che tutte le iscrizioni sono rivolte a nord, per cui sembra possibile arguire che da quel lato scorreva una strada di accesso al paese. Queste epigrafi raccontano di gente semplice, costituita da schiavi e liberti, e facoltosa composta da commercianti e militari che, alla fine del servizio, si ritiravano a vita privata in campagna.
Il tutto sta a confermare che Voghenza era un centro commerciale di grande interesse. I reperti più importanti sono il sarcofago monumentale di Ulpia Pusinnica ed i due complessi funerari in cui sono tombe individuate con cippi riportanti iscrizioni.
Tutti i reperti ora sono affidati al Museo Lapidario di Ferrara ed in quello civico della Delizia Estense di Belriguardo, nel comune di Voghiera.
Sono diverse le stele presenti nel museo del Belriguardo.
La prima è la stele di Ulpia Athenaide (II sec. d. C.).
D(iis) M(anibus) VLPIAE ATHENAIDI CLEMENS CAES(aris) N(ostri) SERVS LIBRAR(ius) CONIVG(i) ET VLPIVS FESTVS B(ene) M(erenti)
Agli dei Mani. Il marito Clemente, servo librario di nostro Cesare, e Ulpio Festo, alla benemerente Ulpia Athenaide.
La stele ben s’inserisce nel periodo traianeo, in quanto la donna raffigurata nel timpano, distesa sul kline, presenta una treccia passante sopra la fronte, tipica acconciatura delle signore del periodo. Inoltre, i liberti citati presentano il gentilizio della gens Ulpia, la stessa alla quale apparteneva l’imperatore Traiano (98 – 117 d.C.). Il marito, Clemente, era uno schiavo dell’imperatore che svolgeva la mansione di librarius, una sorte di “amministratore” del vicus. Godendo, quindi, di un certo benessere economico, era riuscito a riscattare non solo se stesso, e passare da una condizione schiavile a quella di liberto, ma anche la moglie, Ulpia Athenaide, ed il figlio, Ulpio Festo.
Infatti, in certi casi i romani utilizzavano gli schiavi per svolgere certi incarichi di tipo pubblico. Considerando, inoltre, che questo centro era tra i più attivi, da un punto di vista degli scambi commerciali, da parte delle persona più abili non era difficile arricchirsi. Probabilmente il nomen Athenaide, unitamente all’iconografia della donna sul kline, indicherebbe la provenienza greca della defunta. Il foro presente nella parte inferiore della stele serviva per infilare un palo con lo scopo di dare maggiore stabilità.
La seconda è la stele di Lucio Quadratiano Proclino (II sec. d. C).
D(iis) M(anibus) LUCIO QUADRATIANO PROCLINO ADOLESCENTI INFELICISSIMO PETILIA PROCLINA NEPOTI–
Agli dei Mani. Petilia Proclina all’infelicissimo nipote adolescente Lucio Quadratiano Proclino.
Lucio viene definito “infelicissimo”, poichè, morì in giovane età, infatti il termine “adolescente”, nel periodo romano, definisce un momento ben preciso, tra i dodici ed i sedici anni; è definito “nipote” il che fa pensare che fosse anche orfano perché la dedicante è la nonna o la zia; inoltre, analisi antropologiche hanno evidenziato che era un disabile fisico. La stele evidenzia un lapicida di bassa cultura in quanto le ultime due linee s’inclinano verso destra, e non aveva una buona concezione dello spazio poiché alcune lettere finali sono molto più piccole delle precedenti per la mancanza di spazio. Probabilmente l’artigiano non è andato a scuola e forse ha copiato un testo che gli è stato dato.
La terza è la stele di Lucio Fabrizio Pupo, in pietra calcarea bianca (II sec. d. C).
D(iis) M(anibus) BALERIA Q(vin)TIA LVCIO FABRICIO PVPO CONIVGI CAR(i)S(si)M(o) CVN CVO BIXIT ANNIS XXXX SENE VLLA Q(ve)RELLA BENEM(e)R(en)T(i) P(o)S(u)IT
Agli dei Mani. Valeria Quinzia pose (la stele) al carissimo e benemerente marito Lucio Fabrizio Pupo con il quale visse quarant’anni senza aver mai litigato.
La stele è preceduta da un’ascia che occupa lo spazio nel timpano, iconografia che lascia aperte alcune interpretazioni, ad indicare o una cesura netta tra la vita e la morte, o lo strumento usato dall’artigiano per realizzare la stele, o ancora con l’intendo di incutere timore ai possibili profanatori. La stele presenta alcune lettere sbagliate, segno della scarsa cultura dello scalpellino ma anche segno della sua origine iberica. Infatti, l’area era abitata anche da liberti imperiali di Traiano, anch’egli iberico.
Nel museo è presente anche il cippo di Hygia (II sec. d. C).
L’iscrizione probabilmente è dedicata ad una bambina. La sepoltura aveva come corredo quattro bottiglie intatte di forme uguali ma di dimensioni via via più piccole.
È presente anche un cippo ossuario in calcare del periodo più antico della necropoli, I sec. d. C., cioè un cippo che presenta un incavo all’interno per contenere le ceneri del defunto.
Di Halus viene ricordato il suo incarico, saltuarius, cioè “amministratore” del saltus, uno di quei vasti territori, economicamente tra i più redditizi, del vicus. Il saltus di Halus è di proprietà imperiale, infatti il riferimento ad Augusta vuole essere un rimando a Livia, moglie di Augusto, di cui Halus era servo. Questo è un elemento di datazione in quanto Livia prese il titolo di Augusta solo dopo la morte del marito, quindi successivamente all’anno 14 d. C.
All’interno del museo sono state ricostruite due tombe, una del tipo a cremazione a cappuccina, l’altra del tipo ad inumazione a cassa laterizia con tegole e copertura piana. Su alcune di queste tegole sono presenti bolli laterizi che indicano la fabbrica più attiva in zona, che era quella Pansiana, di proprietà di Vibo Pansa, governatore della Gallia Cisalpina nella seconda metà I sec. d. C. il quale, a seguito della confisca dei beni, la manifattura divenne di proprietà imperiale, ed ogni imperatore marcò i laterizi con la propria iniziale accanto al nome della fabbrica, come ad es. TI. PANSIANA ad indicare un laterizio prodotto nella fabbrica Pansiana durante il regno di Tiberio. Questo può ritenersi un elemento di datazione diretta. I laterizi dell’officina Pansiana conobbero una diffusione piuttosto ampia, infatti, oltre ad essere conosciuta nel delta ferrarese, altre fabbriche sono note nei territori di Ravenna, Rimini, Aquila, lungo le coste dell’Adriatico settentrionale fino in Istria, ed in Dalmazia.
Le stele della necropoli ricalcano i canoni della produzione ravennate coeva, mentre i corredi funebri danno ampia testimonianza di un centro di grande vitalità, dove si godeva di un certo benessere economico, grazie alla presenza di centri amministrativi imperiali e traffici commerciali di ampia portata.
I corredi funebri che usualmente accompagnavano il defunto nel suo viaggio ultraterreno, sono costituiti per lo più da effetti personali e da una serie di oggetti fittili o in vetro necessari ai riti della sepoltura.
La ceramica è composta da tazze, brochette, anfore di ceramica comune e pareti sottili. Documentati sono anche gli incensieri di cui uno è stato ritrovato ricolmo di legumi bruciati e, molto probabilmente, costituiva un’offerta al defunto.
Di importazione aquileiese sono i balsamari che servivano a contenere olii profumati impiegati nei riti della sepoltura. Particolarmente ricca è la documentazione in vetro, proveniente dalle zone adriatiche, che nella semplicità e nella eleganza delle forme spesso si dimentica abbiano quasi duemila anni.
Presenti anche le lucerne votive, alcune raffigurate sul disco, altre riportanti il marchio dell’artigiano fabbricante, il più diffuso è quello dell’officina Fortis, ma attestate sono anche le officine Vibiani, Cresces e Agilis. Nelle sepolture, le lucerne venivano poste ai piedi del defunto a simboleggiale la luce che doveva accompagnare i suoi passi nel cammino ultraterreno. Alcune di queste presentano un secondo canale di alimentazione che serviva a far entrare più ossigeno e quindi fare un luce più intensa.
La presenza delle monete nelle tombe, in generale, ha un significato puramente simbolico. Rappresentano l’Obolo di Caronte, cioè la paga che il defunto doveva dare al mitico traghettatore di anime affinché fosse condotto nel mondo ultraterreno. Spesso si utilizzavano monete fuori corso e spesso anche molto consunti perché circolanti per molti anni, quindi sono anche di difficile lettura, per questi motivi queste non possono essere considerate elementi di datazione, ma un termine post quem, cioè un limite cronologico preciso di antichità massima. Gli esemplari ritrovati coprono un arco cronologico che va dall’imperatore Claudio (41 – 54 d. C.) a Massimino il Trace (235 – 238 d. C.).
Tra gli oggetti più preziosi sono presenti monili in ambra di produzione aquileiese. L’ambra giungeva ad Aquileia dal Baltico, attraverso l’Europa. All’oggetto fabbricato con questo materiale veniva attribuito un valore apotropaico, cioè si pensava potesse preservare la salute dai malanni. Questa classe di oggetti, presente nel museo, consta in una coppia di anelli, di cui uno presenta l’iconografia di una testina femminile con la tipica ed elaborata acconciatura traianea, mentre il secondo presenta tre scene differenti sull’intera sua circonferenza che lo rendono un oggetto unico nel suo genere: una vittoria alata; una biga trainata da cavalli in corsa guidata da un fanciullo; due amorini che giocano. Altri oggetti in ambra sono due spatole per il trucco, una collana formata da trenta grani, ognuno dei quali presenta un’iconografia differente dagli altri, ed uno scettro formato da elementi cilindrici.
Pochi, invece, sono i monili in oro. Sono presenti un paio di orecchini, un ciondolino, uno spillone per capelli, ed uno piccolo anello con smeraldo.
Di particolare interesse è un cofanetto ligneo rivestito con fogli di pergamena i quali, in base ad alcune analisi, fanno ritenere che tali fogli siano i più antichi presenti in Italia. Il cofanetto conteneva i gioielli ed il corredo della defunta ed aghi da lavoro. Sono conservati anche gli elementi metallici, quali catenelle e borchie. Il corredo si componeva di un piccolo balsamario unitamente ad altri piccoli contenitori, una valva di conchiglia ed uno specchio rettangolare in bronzo.
Oggetto fuori dal comune è un balsamario in sardonice, perfettamente conservato e dalle forme eleganti. Molto probabilmente si tratta di un oggetto unico nel suo genere in quanto è formato da un unico pezzo e la perfezione della lavorazione è data da uno spessore costante in tutto il corpo dell’oggetto. Questo balsamario, esattamente come le ambre ed i vetri, è di produzione aquileiese con materia prima proveniente dall’Egitto.
Dal circondario provengono materiali di età romana, quali pesi da telaio in terracotta, sigillata aretina, sud – gallica, nord – italica e da cucina, scarti di lavorazione di fornace ed una statuetta in bronzo di tipologia romana e in stile ellenistico, raffigurante il dio Hermes – Mercurio.
Qui è presente una vetrina che raccoglie pezzi di un anonimo collezionista che successivamente donò il tutto al museo. Si tratta di materiale eterogeneo, sia per la cronologia sia per la provenienza, ed è composto in prevalenza da lucerne e balsamari, ma anche ceramica protocorinzia, attica, cipriota e corinzia.
Il materiale più interessante sono alcuni pezzi di ceramica etrusca (vernice nera e ceramica grigia) del IV – III sec. a. C. Infatti, Voghiera e Voghenza, in età romana, si trovavano su sponde opposte del fiume Po, Voghenza sulla riva sinistra e Voghiera sulla riva destra. E la presenza di ceramica etrusca a Voghiera, fino ad ora non documentata a Voghenza, potrebbe indicare che la zona destra del Po fosse sede di insediamenti più antichi, a differenza di Voghenza che conobbe un suo sviluppo solo a seguito della colonizzazione romana. La ceramica greco – etrusca consta di una trentina di frammenti tra i quali alcuni presentano anche scritte graffite in lingua etrusca. A questi materiali non si ebbe nessun riscontro di alcune struttura abitativa o funeraria, quindi bisogna supporre che i materiali siano stati gettati nel greto del fiume Po.
Da Fondo Tesoro provengono i corredi funebri della necropoli bizantina del VI – VII sec. d. C., le cui tombe riutilizzavano spesso materiali laterizi romani provenienti dagli strati sottostanti. I materiali ritrovati che componevano i corredi constano in collane in pasta vitrea, pettini in osso a dentellatura bilaterale, orecchini ed anelli in bronzo, lucerne, brocche trilobate che non trovano confronti in ambito locale ma in area ragusana. Questi corredi indicano che le grandi vie commerciali rimasero attive anche alcuni secolo dopo l’età romano – imperiale. Documentate sono anche monete romane che coprono un periodo che va da Claudio, 41 d. C., a Valentiniano II, 392 d. C.
Lo studio degli scheletri ha evidenziato che i voghentini alto – medioevali avevano una statura media di 1,50 m per le donne e di 1,70 m per gli uomini, vivevano fino a 45 – 50 anni, non soffrivano di rachitismo ma di malattie comuni anche ai giorni nostri, come l’artrosi, non presentavano tracce di lavori pesanti, tutti elementi che indicano una buona condizione sociale ed economica. Molto probabilmente, infatti, la presenza della diocesi ha protratto per qualche secolo la fortuna amministrativa e commerciale di questo centro. Voghenza, all’inizio dell’era cristiana, divenne sede della prima diocesi ferrarese, confermando l’importanza che il centro ebbe sin dall’età romano – imperiale. Sembra che il primo vescovo risalga al 330 d. C., pochi anni dopo l’editto di Constantino che avvenne nel 313 d. C. che sancì libertà di culto ai cristiani.
Negli strati sottostanti la necropoli bizantina di Fondo Tesoro si rinvenne materiale pertinente ad una grande domus imperiale. La zona sino ad ora esplorata ha evidenziato parecchi ambienti, molti dei quali con evidenti segni dell’incendio che la distrusse. Questi vani custodivano ancora una grande quantità di oggetti, come vasellame, lucerne, vetri, ma anche un diploma militare.
Questo è inciso su due lamine di bronzo scritto su entrambi i lati, ed il testo conservato occupa lo spazio di tre facciate, la quarta riporta i nomi dei sette testimoni che prestarono fede alla veridicità del documento: GAIO DOMIZIO RESTITUTO, GAIO CAMERIO ASCANIO, TIBERIO CLAUDIO PROTO, GAIO GIULIO MARZIALE, PUBLIO LUSCO AMANDO, GAIO TERENZIO FILETO, TIBERIO CLAUDIO ERMETE. Testo: IMP(erator) CAESAR, DIVI NERVAE F(ilius), NERVA TRAIANUS AUGUSTUS GERMANIC(us), PONTIFEX MAXIMUS, TRIBUNIC(ia) POTESTAT(e) III CO(n)S(ul) III, P(ater) P(atriae), IIS QUI MILITANT IN CLASSE PRAETORIA RAVENNATE, QUAE EST SUB L(ucio) CORNELIO GRATO, QUI SENA ET VICENA PLURAVE STIPENDIA MERUISSENT QUORUM NOMINA SUBSCRIPTA SUNT, IPSIS, LIBERIS POSTERISQUE EORUM CIVITATEM DEDIT ET CONUBIUM CUM UXORIBUS QUAS TUNC HABUISSENT, CUM EST CIVITAS IIS DATA , AUT SI QUI CAELEBES ESSENT, CUM IIS QUAS POSTEA DUXISSENT, DUMTAXAT SINGULI SINGULAS, PR(idie) IDUS IUNIAS T(ito) POMPONIO MAMILIANO L(ucio)HERENNIO SATURNINO CO(n)S(elibus), GRECALE L(ucio) BENNIO LICCAE F(ilio)BEUZAE, DELMATE, ET MOCAE LICCAI FILIAE UXORI EIUS, DALMAT(ae). DESCRIPTUM ET RECOGNITUM EX TABULA AENEA QUAE FIXA EST ROMAE, IN MURO POST TEMPLUM DIVI AUGUSTI AD MINERVAM.
Cesare Imperatore, figlio del divino Nerva, Nerva Traiano Augusto Germanico, pontefice massimo, durante la quarta tribunizia podestà, console per la terza volta, padre della patria, a coloro che militano nella flotta pretoria di Ravenna la quale è sotto il comando di Lucio Cornelio Grato, e che per 26 anni prestarono servizio militare ed i cui nomi sono qui sotto scritti, ad essi, ai loro figli ed ai loro discendenti ha concesso la cittadinanza ed il diritto di matrimonio con le mogli che abbiano viene dato loro il diritto di cittadinanza, o se celibi, con quelle che in seguito sposino, soltanto una moglie per ciascuno; il giorno prima delle idi di giugno; essendo consoli Tito Pomponio Mamiliano e Lucio Herennio Saturnino al generale Lucio Bennio Beuza, figlio di Licca, dalmata, ed alla moglie Moca, figlia di Licca, dalmata. Trascritto e riportato dalla tavola in bronzo che sta a Roma, nel muro dietro al tempio del divino Augusto, presso Minerva.
Il testo è un attestato ufficiale rilasciato ad un militare dalmata che per 26 anni prestò servizio presso la flotta imperiale di Ravenna al quale venne concessa la cittadinanza romana. Quella usata ricalca una formula stereotipata per la tipologia di questi documenti, i quali vennero rilasciati dall’imperatore in persona, a partire dalla seconda metà del I sec. d. C. dove le uniche variabili sono l’onomastica e la datazione. Quest’ultima si può determinare con esattezza: 12 giugno dell’anno 100 d. C, e i fattori che concorrono a stabilire tale datazione sono la chiara indicazione del giorno prima delle idi di giugno, l’onomastica consolare, le titolature riferite a Traiano, e l’indicazione della quarta tribunicia.
Questo documento è di grande importanza storica perché si tratta del più antico testo che menzioni come imperiale la flotta di Ravenna. La precedente citazione conosciuta risale, infatti, al 127 d. C. Quindi la flotta ravennate, stanziata a Classe, è cronologicamente precedente a quella di Capo Misero la cui prima citazione in merito risale al 114 d. C., confermando che le sedi delle flotte imperiali erano due, Classe di Ravenna in Romagna e Capo Misero in Campania. La presenza di questo diploma da indicazione precisa dell’insediamento di Fondo Tesoro, un termine post quem che ci porta al II sec. d. C.
Il materiale ritrovato nella domus consta di lucerne, di cui una con raffigurazione a rilievo di un’officina vetraia, olle, brocchette, ceramica da cucina, ceramica a pareti sottili, un anfora con titulo picto sulla spalla, bolli su anfora, balsamari, coppe e piatti in terra sigillata aretina, sud – gallica e nord – italica, elementi di bilancia, fusaiola, spilloni, scatolina e fibula in bronzo, cucchiai, elementi strutturali come un blocchetto di opus graticium, lastre di rivestimento in marmo di Verona e vasetti piriformi che avevano la funzione di alleggerire volte e pareti. Interessante anche un frammento di ceramica sigillata aretina con iscrizione neo – punica, del I – II sec. d. C., del quale ancora non si capiscono ancora le ragioni di una sua presenza in una zona così settentrionale come questa.
L’ultima vetrina contiene ceramica graffita rinascimentale ferrarese trovata al castello del Belriguardo in una vasca – discarica, probabilmente pertinente alla delizia estense costruita nel XV sec. da Niccolò d’Este come residenza estiva.
Autore: Mario Zaniboni – zamar.22blu@libero.it