Palenque è un importante sito archelogico situato nello Stato del Chicas in Messico. Stando a quanto si sa, fu un delle città più grandi e importanti del mondo occidentale noto fino ad allora. Era una città ricca e florida nei secoli dal VI al VII d.C., ma molti secoli fa, e non si conosce la causa, Palenque fu abbandonata, lasciando libera la giungla di invaderla e farla scomparire sotto la sua cappa vegetale.
E fu questo l’aspetto con il quale Cortés, quando sbarcò in America nel 1519 e si addentrò nel Messico, la trovò, avvolta in un’intricata, impenetrabile giungla. Ma non avendo destato nessun interesse, fu ignorata e dimenticata, tanto che si dovette aspettare il secolo XVIII per veder qualcuno che le desse l’importanza che merita.
Questi era lo spagnolo Antonio del Rio, che nelle sue ricerche si imbatté nelle tracce delle rovine della città. Per un certo periodo studiò quei resti, ma poi lasciò perdere e la città tornò nell’oblio, facendo perdere le sue tracce.
Solamente nel 1830, ancora una volta ci fu qualcuno che si imbatté nelle rovine di Palenque: era un soldato di ventura, Jean Frédéric Waldeck, il quale si entusiasmò per quanto aveva trovato dell’antico centro archeologico, tanto da sostarvi per tre anni, durante i quali raccolse in disegni tutto quanto aveva avuto modo di vedere e di apprezzare.
Più tardi, nel 1840, ci fu la visita dei due esploratori famosi Stephens e Catherwood che, avendo sentito parlare dell’esistenza di questa città perduta, andarono a esplorarla, decrivendo tutto quanto era caduto sotto i loro occhi.
Chiaramente, tutto quanto era stato visto così come si presentava divenne tutt’un’altra cosa, quando nel 1930 si organizzò una serie di scavi, diretti dall’archeologo M. A.Fernàndez che, insieme con F. Bloom e Ruz Lhuillier, riuscì a scoprire dalla boscaglia diversi templi della civiltà Maya, fra i quali il più importante era quello definito “Tempio delle Iscrizioni”, che fu successivamente il centro di una scoperta che suscitò meraviglia ed interesse sensazionale ed internazionale.
Però, si dovette aspettare il 1952 affinché ciò avenisse. L’archelogo messicano Alberto Ruiz, che operava nel restauro di rovine della città, mentre stava studiando su quanto lo attorniava nell’edificio denominato “Tempio delle Iscrizioni”, appunto, così definito perché al suo interno si trovano ben 617 glifi, fu colpito da qualcosa che lo incuriosì: si accorse, infatti, che sul pavimento era una lastra di pietra in cui erano aperti dei fori, attraverso i quali potevano infilarsi le dita. Chiamò i suoi collaboratori e la fece sollevare con la speranza di trovarvi al di sotto chissà cosa. Ma, invece di esservi nascosto qualche oggetto o altro, trovò una cavità mezza piena di detriti vari, che coprivano una gradinata.
Fatta fare la debita pulizia della scala, senza indugio scese e si trovò davanti una cripta, all’interno della quale, insieme con oggetti vari di culto e i resti di sei persone, si trovava una tomba in un sarcofago ricoperto da un’enorme lastra di pietra del peso valutato in cinque tonnellate. La tomba conteneva i resti di un individuo chiamato halac uinic, vale a dire “uomo vero”, che fu identificato come il re Maya Pacal; e in seguito la pietra fu definita come “Lastra di Pacal”, appunto, o anche “Lastra di Palenque”.
Ma ciò che maggiormente attirò l’attenzione fu quanto sulla lastra era rappresentato, che lasciò molto sorpresi coloro che la ebbero sotto gli occhi.
Era chiaramente raffigurata in bassorilievo una forma umana che, stando alla posizione in cui era ritratta, dava l’impressione che si trattasse del pilota di un mezzo, forse volante, avente a disposizione delle mani pulsanti, maniglie e leve; qualcuno ritenne che l’ammasso che si vedeva sotto di lui sarebbe potuto essere un motore, qualcun altro ha riconosciuto, nei ghirigori della figura, l’esistenza di un complesso che garantisse la respirazione e di un sistema che consentisse di manovrare il moto del mezzo: insomma, sembra di dover concludere che ci fu qualcuno che pensò addirittura che si trattasse del pilota della una navicella di un vascello galattico (un astronauta, in buon sostanza). A me, la sua posizione dà l’impressione che si tratti dell’addetto a una mitragliera o similare di carattere futuristico, mentre sono dell’avviso che non si tratti di nulla legato all’astronautica e che sia la descrizione artistica di qualcosa connesso alla religione dei Maya.
Ognuno è libero di pensarla a modo suo, in base alle sue idee, alle sue conoscenze e alla sua immaginazione.
Lo scrittore svizzero Erich von Daniken, interpretando a modo suo il contenuto del bassorilievo, nel 1968 pubblicò lo scritto “Ricordi dal futuro”, in cui esprimeva il suo parere, secondo il quale in un lontanissimo passato esseri alieni sono finiti sul nostro Pianeta, si sono trovati anche a Palenque e, alla fine, sono ripartiti, mentre i ricordi della loro visita si sono perduti a causa dei cambiamenti climatici e dell’azione devastante degli agenti atmosferici o di altro ancora (terremoti, eruzioni vulcaniche, caduta di meteoriti o quant’altro). In definitiva, per lui quella figura poteva essere essere un astronauta.
Ma tante altre interpretazioni, di tutt’altro tono, fatte restando con i piedi fermamente posati a terra, portarono alla conclusione che tutto quanto era istoriato nella pietra era spiegabile come un contesto in cui erano riportati tutti elementi riconducibili a riti religiosi o, anche, alla rappresentazione della dipartita di un sacerdote, di un sovrano o di un’alta autorità dal mondo terrestre verso quello dei morti.
Di questo parere è il CICAP (Comitato Italiano delle Affermazioni del Paranormale), che afferma che ciò che si trova descritto nel bassorilievo non è altro che quello che si è appena ricordato; ciò non fa che concordare con l’archeologia ufficiale.
Comunque, non c’è che dire, che si tratti di un reperto archelogico di grande importanza non ci sono dubbi e che susciti interesse e perplessità da parte degli studiosi altrettanto. E’ uno dei tanti che non offrono la possibilità di giungere a chiarirne con esattezza il significato, purtroppo.
Però, diciamolo fra di noi: se si arrivasse a chiarire cosa veramente rappresentassero, forse ne rimarremmo delusi; del resto, tutto sommato è bello restare nell’incertezza (se non si vuole chiamarla ignoranza, nel senso di non sapere), perché fa volare la fantasia e sognare.
Autore: Mario Zaniboni – zamar.22blu@libero.it