Ötzi non è affatto altoatesino: è sardo. Nonostante uno stile di vita salutare soffriva di colesterolo alto, arteriosclerosi e artrite e Ötzi non è il suo nome, ma il più riuscito degli oltre cinquecento soprannomi inventati dai media e dalla comunità scientifica.
Notizie sorprendenti riservate ai visitatori dell’annuale giornata a porte aperte del Museo archeologico dell’Alto Adige che, domenica, ha richiamato a Bolzano un centinaio di curiosi. A fare da guida all’affascinante «dietro le quinte» di Casa Ötzi è Martina Tauber, anatomopatologa dell’ospedale di Bolzano e responsabile della conservazione della mummia umida dell’età del rame.
Rinvenuta nel 1991 da turisti tedeschi in Val Senales, a 3.210 metri, richiama ogni anno 300mila visitatori che, dietro la finestra di vetro da cui ammirano Oetzi The Iceman, ignorano l’esistenza di celle, stanze e laboratori per ricreare le condizioni in cui il ghiacciaio ha conservato l’Uomo venuto dal ghiaccio – questo il suo vero nome – per 5.300 anni. Un apparato supertecnologico il cui mantenimento costa oltre 300mila euro l’anno, quasi mille al giorno. Il «padrone di casa» è schivo, ma il suo «medico di base» – la 49enne brissinese Martina Tauber – è prodigo di rivelazioni presentando l’Iceman Box nascosta da un pannello anonimo.
Dottoressa, come sta Ötzi?
«Bene. Il suo “letto” di vetro è dotato di una bilancia integrata che monitora e registra tutti i valori e tra i parametri più importanti c’è il peso. Ötzi pesa 17,6 chili: a Bolzano, dal 1998, è leggermente ingrassato. In compenso si è accorciato: era un metro e 60, adesso è un metro e 53».
Da cosa dipendono queste variazioni?
«Dai trattamenti a cui lo sottoponiamo. Ogni 6-8 settimane lo strato di ghiaccio che lo ricopre va ripristinato con un trattamento di umidificazione: nebulizziamo acqua purissima che, sulla mummia, diventa ghiaccio. Così simuliamo la conservazione del ghiacciaio che lo ha custodito perfettamente per 5.300 anni e, al contempo, possiamo metterlo in mostra. Ogni 8-10 anni la mummia viene accompagnata in radiologia per un “check-up” completo in cui le tac mostrano eventuali alterazioni invisibili a occhio nudo».
In quali condizioni «vive» Ötzi?
«La “camera” di Ötzi, la cella 1, è sterile, misura cinque metri quadri e imita le condizioni naturali del ghiaccio: 6 gradi sotto zero e umidità quasi del cento per cento. Le pareti sono irrorate da tubazioni in cui corre una miscela di acqua e glicolopropilene e sono coperte da piastrelle di ghiaccio».
Nel caso di guasti c’è un piano di emergenza?
«Più di uno! Accanto alla stanza di Ötzi c’è una seconda cella identica alla prima, la cella 2, servita da un sistema elettronico e di alimentazione completamente autonomo. In caso di emergenza Ötzi può essere trasferito in qualsiasi momento e in pochi istanti. Oltre la parete c’è il laboratorio in cui vengono svolti gli esami. La sala tecnica ospita il complesso – e rumorosissimo – sistema di refrigerazione con compressori, pompe e taniche di miscela. Quindi la stanza dedicata alla sicurezza informatica affidata a un doppio cervellone. In caso di blackout, i generatori si attivano in dieci secondi. Infine una stanza di controllo con i computer in cui visionare anche da casa qualsiasi dettaglio».
Qual è il rischio maggiore?
«Trasmettere microbatteri o germi alla mummia. Per questo medici e tecnici si vestono integralmente con dispositivi di protezione sterili e monouso e, sotto, abbigliamento adatto a temperature proibitive. Il secondo rischio sono le variazioni delle condizioni di conservazione: con meno umidificazione la pelle si seccherebbe e la mummia inizierebbe a sgretolarsi; d’altra parte il ghiaccio è acqua e, in eccesso, può nuocere, riattivando microorganismi dormienti da migliaia di anni. Con un reperto unico non possiamo correre rischi. Per questo esiste un modello di Ötzi riprodotto fedelmente: una “controfigura” utilizzata per film e documentari, visto che la “star” non può lasciare la sua cella».
Che cosa sappiamo di Ötzi?
«Era un uomo di circa 45 anni, ma non sappiamo se sia autoctono. Sotto il profilo genetico, l’aplotipo materno non esiste più: quel raro sottogruppo di Homo Sapiens si è estinto. Invece quello paterno è individuato in Sardegna o in Corsica: qualche antenato proveniva da lì. La ricostruzione digitale della sua immagine è verosimile: il teschio rivela che aveva quei tratti e i capelli erano marroni e ondulati».
Cosa la stupisce del suo «paziente»?
«La predisposizione alle malattie cardiovascolari nonostante uno stile di vita molto più salutare del nostro: mangiava tanta carne perché il grasso forniva energia, ma camminava per ore quotidianamente. Eppure aveva placche di colesterolo e segni di arteriosclerosi nell’arteria addominale e nelle coronarie. Aveva abiti perfettamente cuciti e 61 tatuaggi sui meridiani dell’agopuntura: questo rivela una comunità organizzata in ruoli».
Misteri irrisolti?
«La sua mummificazione deriva da un’azione combinata di congelamento ed essiccazione, ma cosa sia accaduto non è chiaro. Oscura anche la sua morte per emorragia dovuta alla ferita di una freccia tutt’ora conficcata nella spalla sinistra. Ha un livido sullo zigomo destro e una ferita sulla nuca. Ma chi lo ha ucciso? Perché? La lastra di Ötzi è uguale a quella di qualsiasi uomo e stomaco e intestino hanno fornito informazioni importanti, ma polmoni e cervello sono stati sottoposti solo a piccole biopsie e nascondono tanti misteri. Con le nuove tecnologie avremo molto di cui stupirci».
Autore: Silvia M.C. Senette
Fonte: www.corrieredeltrentino.corriere.it, 5 lug 2023