La scoperta in Liguria di una neonata di diecimila anni fa, sepolta con tutti gli onori, testimonia grande riguardo per l’infanzia e ripropone il ruolo ancora poco riconosciuto delle femmine nell’evoluzione umana.
L’hanno ribattezzata Neve: è la più antica neonata Sapiens sepolta con tutti gli onori di cui si abbia conoscenza. Aveva 40-50 giorni quando morì, 10.000 anni fa: è stata ritrovata in una grotta in Liguria, avvolta in un lenzuolo intessuto con 60 conchiglie forate e accanto un artiglio di gufo in dono. Segno che anche all’epoca i bambini così piccoli venivano riconosciuti come membri della comunità a tutti gli effetti.
In genere le ossa dei bambini, in particolare dei neonati, sono troppo piccole e fragili per rimanere intatte nel corso dei millenni. E se vengono trovate è di solito impossibile determinarne il sesso perché il DNA nelle ossa è deteriorato. Ma i resti di Neve, ritrovati nella grotta di Arma Veirana (nel comune di Erli, Savona), sono eccezionali perché ben conservati, per 10 mila anni.
Contenevano ancora abbastanza DNA per consentire di determinare il sesso, hanno spiegato Jamie Hodgkins e Caley Orr, paleoarcheologi dell’Università del Colorado e fra i principali autori dello studio pubblicato su Nature Scientific Report. Secondo Stefano Benazzi, docente di antropologia all’Università di Bologna, che ha analizzato i resti, «si tratta di una scoperta eccezionale: è la più antica sepoltura in Europa di una bimba appena nata».
Caso non isolato. Hodgkins e Orr indicano anche un’altra sepoltura conosciuta di una bambina preistorica. È della stessa età di Neve e fu inumata 11.500 anni fa, nella Tanana Valley, in Alaska. Anche questa sepoltura ha mostrato segni di cura, perché includeva corredo funebre e doni.
«Significa che la personalità infantile, compresa quella delle femmine, ha origini profonde, in una cultura ancestrale comune nata parallelamente in popolazioni di varie parti del pianeta», hanno scritto i ricercatori nel loro studio. E non è poco, perché se andiamo a vedere che cosa facevano i Greci, e stiamo parlando dei “fondatori della civiltà occidentale” (7.500 anni dopo Neve) c’era tutt’altro uso: i bambini piccoli che morivano venivano messi in fosse comuni, in modo anonimo e con ben pochi riti. Solo a una certa età, nella polis greca si era riconosciuti cittadini, o, se vogliamo vederla da un punto di vista antropologico, “pieni esseri umani”.
Ma allora perché degli uomini preistorici in Liguria come in Alaska erano così avanti, dal nostro punto di vista? Come mai tutto questo riguardo per delle neonate, quando in alcune cosiddette civiltà la nascita di una femmina era un evento meno lieto rispetto a quando si trattava di un maschio, e in certi casi persino una sorta di sventura? La risposta risiede nel fatto che nella preistoria, con buona pace delle successive civiltà anche dotte, vigeva una vera parità di genere. Spesso si dà per scontato che sia avvenuto sempre il contrario, ma solamente in quanto, rilevano gli autori dello studio su Scientific Report, il ruolo della donna è stato lungamente sottovalutato in archeologia.
Faemina sapiens. A dire il vero però diverse antropologhe “femministe” hanno da tempo cercato di mettere in luce la posizione decisiva della donna nell’evoluzione della nostra specie, a partire dagli ominini che milioni di anni fa vivevano in Africa orientale. A un certo punto, secondo lo scenario proposto per esempio da Sarah Blaffer Hrdy, antropologa e primatologa americana (University of California, Davis), le femmine iniziarono a selezionare maschi meno aggressivi e più cooperativi, disposti a collaborare per stare dietro ai piccoli. E lo fecero, uniche fra le “scimmie”, nascondendo l’estro al loro interno, per essere disponibili sessualmente indipendentemente da questo.
Ciò favorì i legami sociali e la cooperazione con i maschi, che divennero meno competitivi fra loro in un regime di promiscuità sessuale. Se le femmine non mostravano più il rossore e il gonfiore delle scimmie in calore, non c’era motivo di affrettarsi tutti intorno all’osso. Il sesso era garantito tutto l’anno. Così, nella promiscuità, avere anche solo qualche possibilità di essere il padre di un cucciolo era sufficiente per collaborare e creare un circolo virtuoso intorno all’infanzia – che con la costruzione dei primi strumenti e l’affinamento delle tecniche di caccia e di raccolta divenne più lunga, in funzione dell’apprendimento, tanto da richiedere la formazione di coppie “a tempo determinato”, che rimanevano insieme finché i figli raggiungevano i 5-6 anni di età. Per essere poi guardati da zie, nonne e all’occorrenza dal resto del gruppo sociale.
Maestre, artigiane, cacciatrici. Secondo un’altra antropologa, Nency Turner, etnobiologa americana (University of Victoria, Canada), le femmine furono fondamentali nella costruzione di utensili e nella diffusione del linguaggio parlato. Erano le esperte della raccolta di piante commestibili e con tutta probabilità avevano un ruolo anche nella caccia.
Gli studi più recenti sui cacciatori raccoglitori viventi dimostrano che in effetti in diversi casi anche le donne partecipano alle battute di caccia. Una studiosa italiana, Francesca Giusti, ha voluto mettere in luce come la sostanziale parità fra i sessi sia durata anche dopo la scoperta dell’agricoltura, circa 10 mila anni fa nel Vicino Oriente, fintanto che si usava la zappa – utilizzata indistintamente da uomini e donne. Quando fu poi scoperto l’aratro, che aumentava di 10 volte la produttività dei campi, questo comportò un maggiore coinvolgimento della forza maschile, mentre più cibo a disposizione portava a un aumento esponenziale della popolazione. La competizione fra clan diversi per il possesso di terra e la conseguente necessità di difendere la proprietà assieme ai granai, fece emergere la figura del guerriero, che segnò il tramonto della parità fra i sessi.
Divinità del cielo contro dee madri. Lo stato di grazia preistorico, secondo la famosa antropologa Marija Gimbutas, scomparsa nel 1994, riguardò anche la civiltà megalitica che in Europa andava dalla Penisola Scandinava alla Siberia, dalla Francia fino a Malta, passando per l’Italia, caratterizzata da divinità femminili che rimandavano a un culto generale della Grande Madre. A partire dal V millennio a.C. le cose cambiarono, con le invasioni dei Kurgan, nomadi che avevano addomesticato il cavallo, provenienti dalle steppe asiatiche a nord del Ponto e del Mar Caspio. Erano portatori di una cultura patriarcale con divinità maschili del cielo: divinità guerriere. Le invasioni Kurgan, che a più riprese si protrassero fino al II millennio a.C., determinarono l’affermazione delle lingue indoeuropee su quelle neolitiche, e a un cambio socio-culturale nelle stesse popolazioni locali, che poi si manifesterà nel maschilismo dei Greci e in quello degli Indoari, creatori dei Veda, della divisione in caste e dell’induismo.
Autore: Franco Capone
Fonte: www.focus.it, 8 feb 2022