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FENICI. La spedizione di Imilcone.

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Alla fine del VI sec. a.C., la presenza cartaginese nella penisola iberica meridionale si fece via via sempre piu’ consistente. Gli avvenimenti che spinsero Qart Hadesh (Cartagine, la città nuova) a diventare la guida e il riferimento per tutte le colonie fenicie in occidente, furono la sottomissione della città madre di Tiro ad opera degli Assiri prima e quella successiva al re di Babilonia Nabucodonosor II. In precedenza la fondazione fenicia centro di Gadir (colonia fondata da cittadini provenienti da Tiro intorno all’VIII sec. a.C.), aveva già portato a degli scontri con la vicina popolazione dei Tartessi, come ci ricorda Macrobio (Saturnali I, 20, 12)
…Terone, re dell’Hispania citerior, spinto dalla pazzia ad assediare il tempio di Ercole, allestì una flotta. I Gaditani gli vennero, allora, incontro con navi da guerra. Scoppiato lo scontro, la battaglia ristagnava in una situazione di parità fino a quando, d’un tratto, le navi del Re si volsero in fuga e furono distrutte bruciate da un incendio improvviso. I pochissimi nemici che sopravvissero, quando furono catturati, affermarono che erano apparsi dei leoni sopra la prora delle navi gaditane. Le loro imbarcazioni avevano preso fuoco, allora, come se le avessero colpite i raggi che si dipartono dalla testa del sole; come nei dipinti.
Dopo questo scontro intorno all’VIII sec. a.C., i Tartessi rimasero sottomessi all’egemonia fenicia, almeno fino al VII sec. a.C., quando i focesi di Massalia cominciarono ad estendere i loro traffici nel sud della penisola iberica, complice la debole resistenza da parte fenicia dovuta alla sottomissione della madre-patria Tiro a seguito degli avvenimenti citati in precedenza. Fu allora o forse anche prima, come ci suggerisce Broodbank (Il Mediterraneo cap. X, 580), che Cartagine poco alla volta divenne il punto di riferimento delle colonie di Occidente, la potenza egemone in grado di riunire sotto la sua protezione tutte le colonie fenicie dell’occidente. Alla fine del VI sec, la presenza cartaginese sullo stretto di Gibilterra (a seguito della sconfitta focese di Alalia del 535 a.C.) si stabilizzò e la distruzione di Tartesso intorno al 500 a.C., spalancò loro le porte per il monopolio del commercio dei metalli in particolare dello stagno proveniente dalla direttrice nord del continente europeo, e dell’oro che arrivava dal continente africano.
feniciLa strategia commerciale nei confronti dei rivali, ed in particolare di quelli greci, non si limitò al solo uso della forza ma fu supportata da racconti (esasperati ad arte), che narravano della presenza di pericoli immani per chi si accingeva a superare i limiti posti da Eracle: un mondo popolato da mostri e forze sovrannaturali costituiva il “menu” per chi avesse voluto osare tanto. Insomma un limite da non oltrepassare, se si teneva alla propria vita.
In questo periodo di massima potenza politica, il senato cartaginese decise di affidare a due navigatori, il compito di aprire nuove vie commerciali.
Annone avrebbe condotto una spedizione per circumnavigare l’Africa, mentre Imilcone (forse fratello di Annone, e figlio di Amilcare, il generale cartaginese morto a Imera nel 480 a.C.), ne avrebbe condotta una verso nord, costeggiando prima le coste della Lusitania (l’attuale Portogallo) per poi raggiungere l’estremo del continenet europeo. Ci concentreremo su quest’ultima, anche se sono giunti a noi pochi stralci del suo diario di bordo, narrati da Rufo Festo Avieno storico latino dl V sec. d.C. in “Ora Maritima”, e da Plinio il Vecchio in “Naturalis Historia“.
Il viaggio si svolse molto probabilmente nel V sec. a.C., con partenza da Gadir (la Gades romana) seguendo quindi una rotta che costeggiava le coste della penisola iberica, seguendo quella già percorsa dai Tartessi frequentatori di un non ben definito territorio chiamato Oestrymnin (Estrimnide), che seguendo le indicazioni di Avieno corrisponderebbe all’attuale area del Finistère bretone. Si tratta probabilmente della Pointe de St. Mathieu, a sud della quale si apre la baia di Douarnenez; le Estriminidi, perciò, andrebbero identificate con le piccole isole sparse in questo braccio di mare. Quindi, la posizione più probabile dovrebbe essere la Bretagna visto che la Cornovaglia, ancora attualmente una zona ricca di miniere non è però un arcipelago, mentre nelle isole Scilly non ci sono giacimenti. Vi è da sottolineare il fatto, che già i nativi andalusi commerciavano non solo con gli abitanti della Bretagna, ma anche con quelli della Cornovaglia e forse con quelli dell’attuale Galles. Le rilevanze archeologiche hanno portato a conoscenza l’esistenza di contatti commerciali e culturali della frangia Atlantica europea, già a partire dal II millennio, con le regioni dell’estremo Nord. Molto probabilmente, i Tartessi ricevevano metalli ed in particolare l’ambito stagno, dalle popolazioni celtiche le quali ne gestivano l’estrazione e il commercio (come ad esempio gli Osismi e forse anche i Veneti di cesariana memoria) per poi trasferirlo nella penisola iberica, come ci riporta Avieno (Ora Maritima 113-114) “Tartessiisque in terminos Oestrymnidum negotiandi mos erat”. Era abitudine dei Tartessi spingersi a commerciare sino ai confini con gli Estrimnidi.
feniciL’unico documento in cui si trovano tracce di riferimento al viaggio di Imilcone è, come dicevo, “Ora Maritima” scritto da Rufo Festo Avieno nel IV sec. a.C.
Mi trovo qui in dovere di dare un cenno all’opera in questione, per meglio chiarire la fonte da cui attualmente si possono estrapolare le uniche tracce del viaggio del Cartaginese.
L’opera non narra unicamente le vicende del periplo di Imilcone (il poeta latino ne fa una descrizione non continuativa, dove il personaggio e il suo viaggio vengono menzionati in momenti diversi e mai in modalità lineare) ma si occupa di dare una descrizione di tutto l’ambiente marittimo dalle coste mediterranee dall’Atlantico fino al Ponto Eusino. Avieno afferma di non utilizzare una sola fonte, ma di aver attinto le notizie da una pluralità di autori come Ecateo di Mileto, Ellanico di Lesbo, Fileo di Atene, Scilace di Carianda, Pausimaco di Samo, Damasto di Sigeo, Bacori di Rodi, Eutemone d’Atene, il siciliano Cleone, nonché Erodoto e Tucidide. In buona sostanza, l’Ora Maritima non è il racconto dell’avventura di Imilcone, ma una descrizione delle varie scoperte e peripli che hanno via via completato le conoscenze del continente europeo (Amedeo A. Raschieri Da Avieno a Rutilio Namaziano: Spettatori e poeti del mondo tardo-antico).
Il viaggio con uno scopo commerciale-esplorativo prese avvio, come già accennato precedentemente, nella zona del centro abitato di Gadir, anche se Avieno non menziona mai il nome Gades (il Gadir fenicio), ma fa riferimento a genti puniche stanziate nei pressi delle Colonne d’Ercole, dove tuttora troviamo la moderna Cadice (Gadir).
Plinio, riferisce (Naturalis Historia 2. 169) che Imilcone sarebbe stato inviato (insieme al collega Annone che si diresse a sud partendo da Gades) “…ad esplorare i limiti esterni dell’Europa” e quindi possiamo ipotizzare, per entrambi, lo stesso luogo di partenza.
Proseguiamo ora l’itinerario del cartaginese con i versi 380-389 dell’Ora Maritima:
“Più oltre, in direzione delle regioni occidentali, a partire dalle Colonne, narra Imilcone che i flutti si agitino a perdita d’occhio, in una sconfinata distesa d’acqua marina. Nessuno ha solcato queste rotte, nessuno ha osato spingere la nave in questi mari, poiché al largo non c’è vento: nemmeno un alito sospinge la poppa. Da qui in poi, la foschia si appoggia come un velo sull’aria, la nebbia nasconde sempre i flutti e le tenebre persistono anche durante il giorno.”
La parte iniziale del viaggio con l’ingresso nel mare aperto (l’Oceano Atlantico) non prestava punti di riferimento e al di là delle esagerazioni create ad arte, doveva generare non poca inquietudine nei naviganti dell’epoca, tenendo comunque in considerazione che la navigazione avveniva senza allontanarsi molto dalla costa e che i Fenici non erano nuovi a esperienze fuori dalle Colonne di Melkart; ed è lo stesso Avieno a riportarci la notizia (Ora Maritima 114-129):
fenici“Raggiungevano queste acque anche i coloni di Cartagine e le genti che abitavano nei pressi delle colonne d’Ercole. Il cartaginese Imilcone, che asserisce di aver compiuto l’impresa di persona, sostiene che a stento la traversata si può compiere in quattro mesi: non un alito di vento, infatti, sospinge la barca, e l’inerte specchio dell’acqua pigra resta immobile. Aggiunge inoltre che affiora in superficie una moltitudine d’alghe, che spesso trattiene la chiglia come un cespuglio; scarsa, secondo lui, è la profondità del mare, tanto che l’acqua arriva a malapena a coprire il fondale; mostri marini si aggirano sempre qua e là, nuotando fra le navi che si trascinano con faticosa lentezza.”
Questi versi, indicano che una parte della rotta da Gibilterra sino alla Galizia e poi di lì al golfo di Biscaglia, era già a conoscenza dei marinai fenici. Sicuramente Festo Avieno si avvale di fonti che fanno riferimento allo storico Eforo di Cuma, e a documenti che menzionano un periplo greco della penisola iberica (intorno al IV sec. a.C.) da parte di gente massaliota. (Federica Cordano “La geografia degli antichi” pp. 32-34)
Il viaggio, incontra delle difficoltà per la mancanza di vento, fondali bassi e sabbiosi e per la presenza nell’acqua di una quantità piuttosto elevata di alghe, tutti elementi che impediscono una navigazione fluida.
Le ipotesi su dove il navigatore possa avere trovato queste condizioni, sono forse possibili da ricavare nei versi da 182 al 195, dove Avieno descrive la costa atlantica della Lusitania ed in particolare:
“Si erge poi il promontorio Cepresico ai cui piedi si trova un’isola che gli abitanti chiamano Acale. A stento si presta fede al racconto, tanto è straordinario il fatto: ma l’autorità delle numerose testimonianze conferma in pieno il racconto. Dicono che intorno alle sponde di quest’isola l’acqua non abbia mai lo stesso aspetto che altrove, poiché ovunque lo splendore dei flutti raggiunge la nitidezza del cristallo e sino in profondità le onde mantengono una trasparenza azzurrognola. Gli antichi sostengono però che laggiù il mare sia intorbidito dalla fanghiglia e che le onde portino con sé la melma, insudiciandosi completamente”.
Il promontorio Cepresico, dovrebbe corrispondre all’attuale capo Espichel, che si trova nella zona di Sesimbra, in Portogallo, poco a sud di Lisbona. Sia la baia di Sesimbra e quella di Lagosterios presentano effettivamente acque basse, ma è la conformazione della costa fino e oltre a Lisbona, che ricca di estuari, presenta baie e insenature interne riparate dal vento che ben si prestano alla descrizione a cui si fa riferimento. Ma anche nella fase iniziale del viaggio all’altezza di Cabo de S.Vicente, è facile trovare nel periodo estivo notevoli quantità di alghe. La navigazione al di fuori delle colonne d’Ercole, risultava completamente diversa da quella del bacino del Mediterraneo e il tutto viene illustato molto bene in questo passo dalla dottoressa Chiara Maria Mauro dell’Universidad Complutense de Madrid:
“Una volta arrivati nell’Atlantico, la situazione diventava più complessa. La navigazione oceanica implica, infatti, conoscenze diverse rispetto a quella mediterranea, nonché si svolge in balia di correnti e venti di maggiore intensità. Il tratto atlantico della penisola iberica presenta, altresì, ulteriori difficoltà, in quanto è irto di barriere e di fondali arenosi tra Cadice ed Huelva. L’entrata nell’Atlantico determinava il confronto con una situazione differente: le coste iberiche ed africane affacciate sull’Oceano sono interessate da un costante vento N/No. Questo vento, chiamato nortada proprio per la direzione da cui proviene, si avverte praticamente durante tutto l’anno, ma si fa sentire con più forza nei mesi estivi (giugno – agosto) lungo le coste dell’attuale Portogallo. Mediamente soffia con un’intensità catalogabile tra il 2° ed il 4° grado della scala Beaufort (dunque tra i 7 ed i 26 km/h), ma raggiunge picchi di 90 km/h. La soluzione migliore nel periodo primaverile – estivo (ovvero in quello in cui si svolgeva la navigazione antica) era quella che prevedeva di allontanarsi verso Sud sfruttando la brezza di mare particolarmente propizia che ha luogo nei pressi di Trafalgar (Capo Trafalgar è un promontorio in Spagna sull’oceano Atlantico a nord-ovest dello stretto di Gibilterra) Si scendeva dunque lungo le coste africane ricercando un vento di SO che consentisse la risalita verso il litorale atlantico della penisola iberica. Era dunque necessario prima dirigersi verso sud e poi disegnare una specie di semicerchio in mare aperto prima di raggiungere le coste spagnole/portoghesi. La rotta di ritorno era, di contro, più semplice: dal Portogallo le imbarcazioni potevano lasciarsi trasportare dalla Corrente di Lisbona che corre parallela alla costa fino al capo di San Vincente, da dove potevano ricercare la spinta di un vento di Ponente e, mantenendosi nel mezzo del canale, attraversare lo stretto per rientrare nel Mediterraneo. Era possibile anche spingersi subito verso le coste iberiche, senza dirigersi previamente verso l’Africa: questa scelta comportava, però, l’incontro di venti avversi (la nortada che interessa il litorale portoghese); per andare da S a N si doveva prendere il vento a 12° gradi, mettendo in conto un allungamento considerevole dei tempi di navigazione. Un percorso di questo tipo (in direzione S-N) seguendo la linea di costa poteva protrarsi per circa il doppio dei giorni rispetto allo stesso tragitto praticato in senso N-S” (La navigazione fenicia lungo le coste della Penisola Iberica (IX-VII sec. a.C.): tra difficoltà tecniche e scelte portuali).
Riguardo appunto alle tempistiche di viaggio, le affermazioni che parlano di quattro mesi di navigazione appaiono eccessive, tanto da far supporre che il navigatore abbia fatto volutamente sosta in qualche sito costiero, sia nella fase di andata che in quella del ritorno. Jona Lendering (storico olandese), ad esempio, avanza l’idea che Imilcone abbia fondato delle colonie e degli empori lungo la costa atlantica.
Ma uno studio, condotto nel 2002 dal Nautical Archeology Society di Oxford in collaborazione con il Centro Nacional de Arqueologia Nautica e Subaquatica di Lisbona, scardina questa ipotesi e conferma alcuni ritrovamenti della presenza fenicia sulle coste atlantiche del Portogallo, datati fin dal IX/VIII sec. a.C. e che precederebbero quindi l’arrivo del navigatore punico.
Il lavoro effettuato sugli ex siti costieri di Castro Marim, Abul e Santa Olaia, dove sono confluite le diverse discipline archeologiche (geologiche e geofisiche) ha evidenziato che i siti fenici in questione erano situati ai margini di estuari di fiumi (come si può evincere dalla cartina), provvisti di ancoraggi naturali e con un facile accesso al mare. In buona sostanza, presentavano caratteristiche familiari a tutte le stazioni commerciali fenicie. I due siti che maggiormente ci riguardano, e che si trovano sulla strada che ha probabilmente intrapreso Imilcone, sono nell’ordine Abul e Santa Olaia.
Abul e’ un sito archeologico che si trova nella attuale zona tra Alcácer do Sal e Setúbal che, a metà del VII secolo a.C., viene eretto sulla riva destra del Sado come stabilimento fenicio, forse integrato nella cosiddetta “terza fase” del processo di fondazione delle colonie fenicie nel Mediterraneo occidentale, in un’epoca in cui nell’Atlantico Gadir “cercava” materiali essenziali come lo stagno”.
Santa Olaia (a nord di Lisbona), che attualmente si trova a circa 20 km dal mare aperto a causa dei depositi alluvionali del fiume Mondego, venne fondata come primo insediamento intorno al IX sec. a.C., per poi diventare una stazione commerciale intorno all’VIII-VII sec. a.C.
Durante il periodo fenicio, il sito si trovava in prossimità del delta del Rio Mondego, il quale creava condizioni di acque poco profonde lungo la zona costiera, quindi con facili approdi e la possibilità di accedere nell’entroterra portoghese. Il centro sarebbe servito come lavorazione e stoccaggio di minerali metallici provenienti dall’interno.
Attualmente risulta l’avamposto piu’ a nord di cui si abbiano notizie e dove molto probabilmente Imilcone ha sostato durante le due fasi del viaggio. Ciò non esclude però che il navigatore, abbia fondato piccole stazioni ancora piu’ nord proprio per favorire gli scambi commerciali con le popolazioni locali (lo scopo principale del viaggio) di cui però, al momento, non si hanno tracce.
Il viaggio quindi prosegue, e Avieno ripete in sostanza le indicazioni precedenti:
“Enorme è la distesa dei suoi flutti che avanzano con ampiezza, senza che si possa determinarne i confini. Ma la profondità di queste acque è così modesta che a stento il mare è in grado di coprire la sabbia dei fondali. Uno spesso strato di alghe affiora in superficie, impedendo così il riflusso delle onde. Mostri di ogni genere infestano lo spazio marino, in cui si diffonde il terrore per la presenza delle belve. Tutto ciò il punico Imilcone riferiva di averlo visto e sperimentato nell’Oceano. E tale è il racconto che, attinto dagli antichi annali cartaginesi, io ti ho consegnato.” (Ora Maritima 404-415).
La presenza di mostri marini, o di belve come vengono definite, è un tema ricorrente che è facile ritrovare nei diari di bordo di tutta la navigazione di quel periodo e non solo. Al di là della prassi che veniva seguita per scoraggiare eventuali concorrenti commerciali, esse facevano effettivamente parte dell’immaginario collettivo di chi andava per mare. Potevano assumere diverse forme che andavano da quella di drago a quella di serpente marino o esseri dotati di molteplici arti, con la caratteristica comune di emettere getti d’acqua.
“L’Oceano è considerato un riflesso del mondo terrestre, con una corrispondenza perfetta: niente di ciò che esiste sulla terra può mancare. Esattamente come la superficie terrestre, si pensa che il fondo del mare presenti pianure e montagne, foreste e campi. Non si fa nessuna discriminazione tra pesci realmente esistenti e pesci immaginari, anzi, a volte nel medesimo soggetto si integrano elementi reali con elementi di fantasia. In mancanza di osservazione diretta ci si lascia andare a inventare sirene e giganteschi serpenti marini e negli abissi vivono cavalli marini, che hanno la parte anteriore di cavallo e quella posteriore che termina con una coda di pesce, con due uniche zampe anteriori, mentre negli esemplari fenici questo essere aveva anche un paio di ali e una coda bifida” (Sara Sebenico I Mostri dell’Occidente Medievale). Una tradizione che ci accompagnerà fino all’età moderna.
Ma da quante navi e uomini era composta la spedizione di Imilcone?
Un quesito a cui, almeno per il momento, non si è in grado di dare una risposta certa. Possiamo però ipotizzare il tipo di navi che erano utilizzate nel commercio e nelle esplorazioni, e che quindi possono essere state utilizzate dal navigatore punico.
La scoperta di pitture rupestri indigene (datate tra il 1000 e il 700 a.C) a Laja Alta, presso Jimena de la Frontera in provincia di Cadice, che raffigurano una flottiglia di sette navi di vario tipo, ha contribuito ad arricchire la documentazione sul tipo di naviglio fenicio. Queste imbarcazioni presentano una prua alta, una poppa ricurva, una o due vele, un remo che è utilizzato come timone e quattro di queste dispongono di una fila di remi. La datazione non corrisponde alle tempistiche del viaggio di Imilcone ma le caratteristiche delle imbarcazioni, nella fase in cui avvenne l’impresa, non erano cambiate di molto. Noi siamo a conoscenza da altre indicazioni, in questo caso bassorilievi assiri (che non si discostano molto da quelle egizie del XV), di imbarcazioni con le stesse caratteristiche manovrate sia a remi che a vela quindi con propulsione mista, e con una figura a prua che riproduce un cavallo. I greci chiamavano queste imbarcazioni gaulos (plurale gauloi) e hippos (plurale hippoi), il primo termine significava ‘vasca’ e si riferiva alla forma arrotondata, mentre il secondo faceva riferimento alla forma a testa di cavallo della prua. La stabilità della nave sull’acqua si otteneva con pesi sul fondo, pietre o sabbia se si trasportavano le anfore, rammentando sempre che le navi antiche non sempre erano provviste di chiglia, o se presente era poco marcata e il fondo era molto piatto. I modelli di queste navi mercantili prevedevano attraversamenti in mare aperto, mentre non è escluso (come i bassorilievi ci riportano) che ne esistesse un altro tipo per il commercio nell’ambito della fascia costiera tra città vicine, o anche per la pesca. Le dimensioni variavano a seconda dell’utilizzo, come così anche la propulsione. Nel primo caso, parliamo di legni della lunghezza di venti o trenta metri, larghi dai 5 agli 8 metri. Lo scafo, come già accennato, era tondeggiante e la poppa terminava con un fregio a forma di pesce, mentre della prua abbiamo già accennato. Per quanto riguarda la propulsione, in questo caso si parla solo di quella velica, con una vela a forma quadra (in verità piu’ rettangolare che quadrata), mentre il timone era rappresentato da un remo con pale asimmetriche, fissato presso la poppa. Le navi del secondo tipo, molto probabilmente, erano piu’ piccole e del tutto simili alle “sorelle” maggiori, ma come già accennato venivano utilizzate per operazioni di cabotaggio e di pesca (Strabone, Geografia II,3,4) presentando una propulsione mista. E non è escluso che siano state utilizzate queste ultime per il viaggio di Imilcone, proprio per la loro duttilità nel poter utilizzare una propulsione che meglio si adattava alle varie situazioni atlantiche.
Concludendo, non si hanno prove materiali del viaggio a parte le notizie menzionate da alcuni scrittori antichi, poi confluite nell’opera di Avieno. Ma vi sono però evidenze archeologiche che fanno pensare e supporre che la presenza fenicia-punica sulla costa atlantica, li abbia spinti in cerca di nuovi accordi commerciali soprattutto all’indomani della caduta del monopolio tartessiano, proprio verso l’estremo nord dell’Europa.
Alcuni studiosi sostengono il raggiungimento delle isole britanniche per lo sfruttamento della cosiddetta “via dello stagno”. Sia Moscati (“I Fenici. L’espansione fenicia.”) che Gras (L’Universo fenicio) parlano di indizi di un traffico di stagno verso il sud-ovest della penisola iberica proveniente dalla costa meridionale della Bretagna, dalla Gran Bretagna e dalle isole Cassiteridi.
In effetti i Cartaginesi “blindarono” per lungo tempo lo stretto di Gibilterra, gestendo il monopolio del commercio dello stagno e utilizzando gli indigeni per il trasporto nell’oceano almeno fino all’affermarsi della potenza romana sul Mediterraneo.
Ma di questo parleremo in un altro articolo.

Bibliografia principale:
– Paolo Bernardini: I Fenici sulle rotte dell’Occidente nel IX sec. a.C. Cronologie, incontri, strategie. (Rivista della Scuola Archeologica Italiana di Cartagine)
– Gabriella Amiotti: I precursori di Cristoforo Colombo nell’Atlantico e la cultura classica del grande navigatore (Vita e Pensiero)
– Luca Antonelli: Rufo Festo Avieno Ora Maritima (Historika, studi di storia greca e romana)
– Federica Cordano: La geografia degli antichi (Laterza editore)
– Jean Rougé: La navigazione antica (Massari editore)
– Lionel Casson: Navi e marinai dell’antichità (Mursia editore)
– Sara Sebenico: I Mostri dell’Occidente Medievale
– Cyprian Broodbank: Il Mediterraneo (Piccola Biblioteca Einaudi).

Foto 1: Possibile rotta di Imilcone
Foto 2: Insediamenti fenici sulla costa portoghese
Foto 3: Nave fenicia, bassorilievo del I sec. d.C., proveniente da Sidone
Foto 4: Illustrazione di nave da carico fenicia.

Autore: Giuseppe Ferrada

Fonte: Gruppo Pubblico “Il salotto della Storia Antica” – www.facebook.com, 20 nov 2021

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