Si pensava fosse colpa del terremoto, invece ceramiche e calcinacci venivano ammassati separatamente dai rifiuti organici in attesa di un loro riutilizzo.
Chissà perché Roma, anche in tempi non di coronavirus, ha tanti problemi con lo smaltimento dell’immondizia. Eppure, sostiene una studiosa americana, già duemila anni fa i romani sapevano che cosa fosse la raccolta differenziata e soprattutto erano maestri nel riciclaggio.
Allison Emmerson, laureata in archeologia romana e oggi professoressa di studi classici alla Tulane University di New Orleans, insignita due anni fa del Rome Prize dell’American Academy di Roma e reduce da scavi pompeiani con un’équipe americana, lo afferma in un libro (“Life and Death in the Suburbs of Roman Italy”) di imminente pubblicazione con i tipi della Oxford University Press.
Dall’esperienza dell’antica Roma trae addirittura conferme – o insegnamenti, dipende dal punto di vista – in tema di smaltimento nelle realtà attuali.
Ripetutamente, durante gli scavi di Pompei, ci si è imbattuti in grandi mucchi di detriti che molti, in passato, avevano attribuito al terremoto avvenuto nel 62 d.C., 17 anni prima che l’eruzione del Vesuvio distruggesse la città. Niente affatto, sostiene la Emmerson, quelle piccole montagnole rappresentano «passaggi intermedi di riciclaggio». Ceramiche e calcinacci venivano ammassati separatamente dai rifiuti organici in attesa di un loro riutilizzo. E’ la natura stessa a fornire la spiegazione: dove erano scaricati i rifiuti cosiddetti “umidi” la terra – anche dopo due millenni di sonno sotto la coltre di cenere e pomice – assume caratteristiche diverse.
“E’ un suolo ricco, organico”, afferma la Emmerson, che ha partecipato con gli archeologi americani Steven Ellis e Kevin Dicus agli scavi finanziati dall’università di Cincinnati. Dove erano scaricati i materiali inerti, invece, «il terreno risulta molto più sabbioso». La morfologia del terreno indicherebbe addirittura che quei rifiuti non erano stati generati (come sarebbe stato nel caso del terremoto) dove erano stati ritrovati, ma «raccolti da altri luoghi per essere poi riusati».
I primi dubbi, quelli che l’hanno fatta pensare all’ipotesi di un massiccio riciclaggio, le sono venuti osservando i mucchi di rifiuti raccolti lungo le mura settentrionali, presso la Porta Ercolano. Possibile, si è domandata, che gli abitanti di una città elegante e ricca di stupende ville non si occupassero di far portare quelle macerie lontano dalla città, e anzi le ammucchiassero proprio in prossimità di un altro centro abitato, trattandolo quindi come discarica?
«La verità – afferma ora – è che quei rifiuti venivano ammassati in quello come in altri luoghi non per esservi lasciati ma in vista di una cernita e di un riutilizzo». Non a caso, osserva, molti dei muri delle case pompeiane erano formati non da mattoni ma da materiali di recupero: pezzi di tegole, anfore rotte, calcinacci. «Dopo di che – sostiene – le pareti venivano rivestite con uno strato d’intonaco che nascondeva il pasticcio che stava sotto». Ecco dove finiva, per utilizzare il romanesco d’oggi, certa “monnezza”: semplicemente riutilizzata o, come sospetta la Emmerson, addirittura rivenduta come materiale da costruzione dopo un’attenta cernita per separare le macerie utili da quelle destinate a una fine ingloriosa.
«Gli abitanti di Pompei – teorizza – vivevano molto più vicino alla loro immondizia di quanto noi oggi riterremmo accettabile. E questo non perché nella loro città mancassero infrastrutture adeguate né perché il problema non li toccasse, bensì perché il loro sistema di gestione urbana era organizzato con principi diversi».
L’approccio moderno alla gestione dei rifiuti è sovente consistito nell’allontanarli dalla nostra quotidianità: «Non ci interessa che cosa accade ai nostri rifiuti, purché siano portati via. Quello che ho scoperto a Pompei è una diversa priorità, cioè che i rifiuti venivano raccolti e separati per essere riciclati».
Di qui, a suo avviso, una lezione per talune società moderne con una crisi di smaltimento; e la morale la riporta a duemila anni fa. «I Paesi che meglio gestiscono i loro rifiuti sono quelli che hanno adottato una versione del modello più antico, rendendo prioritaria, anziché la semplice rimozione, la sua trasformazione in bene utile».
La prova, da Pompei, che i romani ci hanno insegnato non solo a fare strade, ponti e acquedotti, ma anche – se trascuriamo le fogne a cielo aperto – come disfarci dei nostri rifiuti.
Autore: Fabio Galvano
Fonte: www.lastampa.it, 26 apr 2020