I Campi Flegrei potrebbero essere alla vigilia – in tempi geologici, s’intende – di una nuova eruzione di grandi dimensioni. È la previsione di uno studio pubblicato su “Science Advances” da Francesca Forni, del Politecnico di Zurigo, in Svizzera, e colleghi di altri enti tra cui l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV) di Roma e il Dipartimento di scienze della Terra della “Sapienza” Università di Roma. Le conclusioni sono coerenti con quelle di un altro studio, pubblicato lo scorso anno su “Nature Communication” da Giuseppe De Natale e colleghi dell’INGV.
I Campi Flegrei, un’area di 100 chilometri quadrati fortemente urbanizzati e popolati, sono noti soprattutto per i caratteristici fenomeni attuali di bradisismo, cioè di lento abbassamento e sollevamento del terreno. Sono solo gli ultimi fenomeni secondari di un sistema vulcanico, attualmente in fase di quiescenza, che ha avuto una storia magmatica molto attiva negli ultimi 60.000 anni in cui spiccano due grandi eruzioni: quella cosiddetta dell’ignimbrite campana e quella del tufo giallo napoletano, rispettivamente le due rocce che hanno caratterizzato i depositi di materiale conseguenti alle due eruzioni.
La prima, avvenuta circa 39.000 anni fa, ha seppellito gran parte dell’attuale Campania sotto uno strato di tufi, e ha fatto sprofondare gli stessi Campi Flegrei e una parte dell’area ora occupata dalla città di Napoli, formando una caldera successivamente invasa dalle acque del mare. La seconda, avvenuta 15.000 anni fa, ha prodotto una seconda caldera, di dimensioni più piccole, all’interno della prima. La parte centrale di questa seconda caldera ha subito un
sollevamento di circa 90 metri negli ultimi 10.000 anni, per un fenomeno noto come risorgenza. Questi due grandi eventi vulcanici sono stati accompagnati nei millenni da diversi eventi di portata minore.
Forni e colleghi hanno analizzato campioni di rocce e minerali prodotti da 23 eruzioni avvenute nella zona dei Campi Flegrei, comprese le due eruzioni principali, da cui è stato possibile stimare i cambiamenti critici nella temperatura del magma e il suo contenuto di acqua nel corso della storia eruttiva di tutta la regione. Hanno poi combinato i risultati di questa analisi con un modello termomeccanico per ricostruire i meccanismi che portano il sistema magmatico a passare da eruzioni piccole e frequenti a eventi di dimensioni enormi e dalle conseguenze catastrofiche.
I dati rivelano che l’eruzione in assoluto più recente, quella di Monte Nuovo del 1538, è stata caratterizzata da magmi assai simili a quelli che hanno alimentato l’attività delle fasi iniziali delle eruzioni che hanno formato le caldere. Gli autori ritengono che l’eruzione di Monte Nuovo sia stata l’espressione di un cambiamento delle condizioni chimico-fisiche del magma, in cui notevoli quantità di sostanze volatili si sono separate dalla fase liquida negli strati più superficiali del magma stesso. Questa attuale fase di accumulo di magma e d’incremento della pressione dei gas nella camera magmatica potrebbe culminare, in un’epoca indeterminata del futuro, in un’eruzione di grandi proporzioni.
Fonte: www.lescienze.it, 14 nov 2018