Trenta chilometri a nord di Stonehenge, nelle dolci campagne del sud ovest dell’Inghilterra, si erge un’altra “finestra”, meno famosa, sul Neolitico della Gran Bretagna.
Edificato intorno al 3600 a.C. dalle prime comunità agricole, il West Kennet Long Barrow è un monticello di terra con cinque camere, ornato da lastre di pietra giganti. All’inizio, servì da tomba per una trentina di uomini, donne e bambini. Ma per più di 1000 anni il luogo continuò a essere visitato da persone che riempivano le camere di reliquie come ceramiche e perline, che sono state interpretate come tributi agli antenati o agli dei.
I manufatti ci offrono uno squarcio su quei visitatori e sul loro rapporto con il mondo. I cambiamenti nello stile della ceramica a volte riecheggiano tendenze di lontane regioni dell’Europa continentale, come la comparsa dei vasi campaniformi, che segna l’arrivo in Gran Bretagna di persone e idee nuove.
Ma molti archeologi pensano che questi spostamenti materiali si siano inseriti in una cultura generalmente stabile che ha continuato a seguire le proprie tradizioni per secoli.
“Il modo in cui le persone fanno le cose è lo stesso. Stanno solo usando diverse culture materiali, vasi diversi”, dice Neil Carlin, che all’University College di Dublino studia la transizione dell’Irlanda e della Gran Bretagna dal Neolitico all’Età del rame e del bronzo.
Ma l’anno scorso iniziarono a circolare rapporti che sembravano mettere in discussione questo quadro di stabilità. Uno studio che ha analizzato i dati genomici di 170 antichi europei, 100 dei quali associati a manufatti nello stile dei vasi campaniformi, ha suggerito che le persone che avevano costruito il tumulo e vi avevano sepolto i morti lì erano pressoché scomparse nel 2000 a.C.
L’ascendenza genetica dei britannici del Neolitico, secondo lo studio, era stata quasi interamente rimpiazzata. Eppure, in qualche modo, i nuovi arrivati avevano portato avanti molte delle tradizioni britanniche. “Non mi quadra”, dice Carlin, che ha cercato di conciliare la sua ricerca con i risultati del DNA.
Lo studio “bomba” sulla cultura del vaso campaniforme è apparso su “Nature” in febbraio e, con i suoi oltre 230 campioni è il più grande studio sul genoma antico mai pubblicato. Ma è solo l’ultimo esempio dell’influenza dirompente che la genetica ha avuto sullo studio del passato umano.
Dal 2010, anno in cui è stato completamente sequenziato il primo genoma umano antico, i ricercatori hanno raccolto dati su più di 1300 individui e li hanno usati per tracciare l’emergere dell’agricoltura, la diffusione dei linguaggi e la scomparsa degli stili della ceramica, tutti argomenti su cui gli archeologi hanno lavorato per decenni.
Alcuni archeologi sono entusiasti delle possibilità offerte dalla nuova tecnologia. Il lavoro sul DNA antico ha infuso nuova linfa e impulso nel loro lavoro, e stanno iniziando indagini una volta inimmaginabili, come il sequenziamento del genoma di tutti gli individui di un singolo cimitero. Ma altri sono cauti.
“Metà degli archeologi pensa che il DNA antico possa risolvere tutto. L’altra metà pensa che il DNA antico sia opera del diavolo”, dice Philipp Stockhammer, ricercatore alla Ludwig-Maximilians Universiität di Monaco, Germania, che lavora a stretto contatto con genetisti e biologi molecolari in un istituto, in Germania, creato proprio per costruire ponti tra le discipline. La tecnologia non è la soluzione di tutto, dice, ma gli archeologi che la ignorano lo fanno a loro rischio e pericolo.
Alcuni archeologi, tuttavia, temono che l’approccio molecolare abbia privato il campo delle sfumature. Sono preoccupati per l’ampiezza degli studi sul DNA che, secondo loro, fanno ipotesi ingiustificate, se non addirittura pericolose, sui legami tra biologia e cultura. “Danno l’impressione di aver risolto il problema”, dice Marc Vander Linden, archeologo all’Università di Cambridge, in Gran Bretagna. “È un po’ irritante”.
Non è la prima volta che gli archeologi si confrontano con una tecnologia innovativa. “Lo studio della preistoria oggi è in crisi”, scriveva l’archeologo di Cambridge Colin Renfrew nel suo libro del 1973 Before Civilization, descrivendo l’impatto della datazione al radiocarbonio. Prima che la tecnica fosse sviluppata da chimici e fisici negli anni quaranta e cinquanta, gli studiosi determinavano l’età dei siti preistorici usando ‘cronologie relative’, in alcuni casi basandosi su antichi calendari egizi e false ipotesi sulla diffusione delle idee dal Vicino Oriente. “Gran parte della preistoria, così come è stata scritta nei libri di testo esistenti, è inadeguata: alcuni di essi sono semplicemente sbagliati”, ne deduceva Renfrew.
Non è stato un passaggio facile – i primi tentativi di datazione al carbonio avevano un’incertezza di centinaia di anni o più – ma la tecnica alla fine ha permesso agli archeologi di smettere di passare la maggior parte del loro tempo a preoccuparsi dell’età di ossa e manufatti per concentrarsi su ciò che significavano quei resti, sostiene Kristian Kristiansen, che studia l’età del bronzo all’Università di Göteborg in Svezia. “Improvvisamente c’è stato molto tempo a disposizione per cominciare a pensare alle società preistoriche e alla loro organizzazione”. Il DNA antico offre ora la stessa opportunità, dice Kristiansen, che è diventato uno dei più grandi sostenitori della tecnologia nel suo settore.
Genetica e archeologia sono scomodi compagni di viaggio da più di 30 anni: il primo articolo sul DNA umano antico, del 1985, riportava sequenze di una mummia egizia (ora ritenuta contaminata). Ma i miglioramenti nella tecnologia di sequenziamento a metà e alla fine degli anni 2000 ha messo i due campi in rotta di collisione.
Nel 2010, gli scienziati diretti da Eske Willerslev al Natural History Museum of Denmark hanno usato il DNA di una ciocca di capelli di un groenlandese di 4000 anni fa per generare la prima sequenza completa di un genoma umano antico. Vedendo sotto i propri occhi il futuro del settore, Kristiansen ha chiesto a Willerslev di collaborare a una ricerca finanziata dallo European Research Council che permettesse di esaminare la mobilità umana nel momento in cui il tardo Neolitico aveva lasciato il posto all’età del bronzo, circa 4000-5000 anni fa.
Le migrazioni sono sempre state una delle principali fonti di tensione fra gli archeologi. A lungo si è dibattuto se i responsabili dei cambiamenti culturali nella documentazione archeologica, come il fenomeno della ceramica campaniforme furono i movimenti umani, o se furono le idee che si mossero grazie agli scambi culturali. L’identificazione delle popolazioni sulla base dei manufatti a cui sono associate ha finito per essere vista come un residuo del passato coloniale della scienza, che ha anche imposto categorie artificiali. “I vasi sono vasi, non persone”, si sente ripetere spesso.
La maggior parte degli archeologi ha così accantonato l’immagine della preistoria come una partita di Risiko, in cui gruppi culturali omogenei si aprirono la strada alla conquista di una parte del mondo. Invece, i ricercatori tendono a concentrarsi sulla comprensione di un piccolo numero di siti antichi e della vita delle persone che vi abitavano.
“L’archeologia si era allontanata da queste grandi narrazioni”, dice Tom Booth, un bioarcheologo del Natural History Museum di Londra, che fa parte di un team che utilizza il DNA antico per tracciare l’arrivo dell’agricoltura in Gran Bretagna. “Molte persone pensavano che fosse necessario capire il cambiamento a livello regionale per capire la vita delle persone”.
Il lavoro sul DNA antico – che ha ripetutamente dimostrato che gli abitanti moderni di una regione sono spesso distinti dalle popolazioni che vi abitavano in passato – ha promesso, nel bene e nel male, di riportare parte dell’attenzione sulle migrazioni preistoriche. “La genetica è particolarmente abile nell’individuare i cambiamenti nelle popolazioni”, afferma David Reich, genetista alla Harvard Medical School di Boston, in Massachusetts. Gli archeologi, dice Kristiansen, “erano pronti ad accettare che le persone viaggiassero”. Ma per il periodo dell’Età del bronzo che studia, “non erano preparati a considerare grandi migrazioni. Era una cosa nuova”.
Secondo Kristiansen, gli studi sugli isotopi dello stronzio nei denti, che variano a seconda della geochimica locale, avevano suggerito che alcuni individui dell’età del bronzo si fossero spostati di centinaia di chilometri nel corso della loro vita. Lui e Willerslev si sono chiesti se l’analisi del DNA potesse rilevare i movimenti di intere popolazioni di quel periodo.
Non è mancata la concorrenza. Nel 2012, David Anthony, un archeologo dell’Hartwick College a Oneonta, nello stato di New York, ha riempito la sua auto di scatole con resti umani che lui e i suoi colleghi avevano scavato nelle steppe attorno alla città russa di Samara, fra cui ossa associate a una cultura pastorizia dell’età del bronzo chiamata Yamnaya. Intendeva portarli al laboratorio per il DNA antico appena fondato da Reich a Boston.
Come Kristiansen, Anthony era a suo agio nel teorizzare il passato su larga scala. Nel suo libro del 2007 The Horse, the Wheel and Language aveva ipotizzato che la steppa eurasiatica fosse stata un crogiolo per i moderni sviluppi della domesticazione del cavallo e del trasporto su ruote, che permise la diffusione in tutta Europa e parti dell’Asia di una famiglia di lingue, quelle indoeuropee.
In due articoli tra loro in competizione usciti su “Nature” nel 2015 (1,2), i gruppi sono giunti a conclusioni sostanzialmente simili: una migrazione di pastori dalle steppe delle attuali Russia e Ucraina (legate a manufatti e pratiche culturali come le sepolture a tumulo) sostituì gran parte del patrimonio genetico dell’Europa centrale e occidentale circa 4500-5000 anni fa. Ciò avvenne in coincidenza della scomparsa delle ceramiche, di stili di sepoltura e di altre espressioni culturali del Neolitico e con l’emergere di manufatti della cultura della Ceramica cordata, diffusi in tutta l’Europa settentrionale e centrale. “Questi risultati sono stati uno shock per la comunità degli archeologi”, dice Kristiansen.
Le conclusioni si sono immediatamente scontrate con delle reazioni. Alcune di esse sono iniziate ancora prima che gli articoli fossero pubblicati, dice Reich. Quando ha fatto circolare una bozza tra decine di suoi collaboratori, diversi archeologi hanno abbandonato il progetto. A molti, l’idea che le popolazioni legate alla ceramica cordata avessero sostituito i gruppi neolitici nell’Europa occidentale ricordava stranamente le idee di Gustaf Kossinna, l’archeologo tedesco dell’inizio del XX secolo che collegò la cultura della Ceramica cordata alle popolazioni della Germania moderna, promuovendo un concetto della preistoria simile al gioco del Risiko, noto come archeologia degli insediamenti. L’idea più tardi alimentò l’ideologia nazista.
Reich ha riconquistato i suoi co-autori respingendo esplicitamente le idee di Kossinna in un saggio incluso nel materiale supplementare di 141 pagine dell’articolo. Egli sostiene che l’episodio ha aperto gli occhi su come un pubblico più ampio percepirebbe studi genetici che annunciano migrazioni antiche su larga scala.
Ma non tutti sono rimasti soddisfatti. In un saggio intitolato “Il sorriso di Kossinna”, l’archeologo Volker Heyd dell’Università di Bristol, nel Regno Unito, ha manifestato il suo disaccordo non sulla conclusione che le persone si spostarono verso ovest dalla steppa, ma sul modo in cui le loro firme genetiche erano confuse con espressioni culturali complesse.
Le sepolture della Ceramica cordata e Yamnaya sono più diverse che simili, e ci sono prove di scambi culturali, come minimo, tra la steppa russa e le regioni occidentali che precedettero la cultura di Yamnaya, dice. Nessuno di questi fatti nega le conclusioni degli articoli di genetica, ma sottolineano le mancanze di queste pubblicazioni nell’affrontare le domande a cui gli archeologi sono interessati, afferma.
“Anche se non ho dubbi sul fatto che abbiano fondamentalmente ragione, è sulla complessità del passato che si riflette poco”, ha scritto Heyd, prima di pronunciare una sorta di chiamata alle armi. “Invece di lasciare che i genetisti determinino l’agenda e definiscano il messaggio, dovremmo insegnare loro la complessità nelle passate azioni umane”.
Ann Horsburgh, antropologa molecolare ed esperta di preistoria della Southern Methodist University di Dallas, attribuisce queste tensioni ai problemi di comunicazione. L’archeologia e la genetica dicono cose distinte sul passato, ma spesso usano termini simili, come il nome di una cultura materiale. “E’ ancora C.P. Snow”, dice, riferendosi alle influenti conferenze sulle “due culture” dello scienziato britannico che sottolineò il profondo divario intellettuale tra le scienze e le discipline umanistiche. Horsburgh si lamenta che troppo spesso i risultati genetici hanno avuto la precedenza sulle inferenze sul passato ricavate dall’archeologia e dall’antropologia e che questo “sciovinismo molecolare” impedisce un coinvolgimento significativo. “È come se i dati genetici, per il solo fatto di essere prodotti da persone in camice da laboratorio, contenessero una sorta di pura verità sull’universo”.
Horsburgh, che sta vedendo il suo campo di studi sulla preistoria africana iniziare a percepire il terremoto della genomica antica, dice che gli archeologi frustrati per il loro lavoro mal interpretato dovrebbero esercitare il loro potere sui resti archeologici per chiedere partnership più eque con i genetisti. “La collaborazione non significa che ti mando una e-mail che dice ‘Ehi, hai delle ossa davvero interessanti. Ti manderò un articolo di ‘Nature’. Questa non è collaborazione”, dice.
Molti archeologi stanno anche cercando di comprendere e di entrare in contatto con gli scomodi risultati della genetica. Carlin, per esempio, dice che lo studio genomico sulla cultura del vaso campaniforme lo ha condotto in un “viaggio di riflessione” in cui ha messo in discussione le proprie opinioni sul passato. Ha esaminato la selezione dei campioni di DNA inclusi nello studio così come la base per le sue conclusioni, secondo cui l’aspetto dei manufatti della cultura del vaso campaniforme coincide con una sostituzione superiore al 90 per cento nel pool genetico britannico. “Non volevo metterlo in discussione da una posizione di ignoranza”, dice Carlin.
Come Heyd, accetta che sia avvenuto un cambiamento nella stirpe (sebbene abbia alcune domande sulla sua cronologia e le sue dimensioni). Quei risultati, in effetti, ora lo inducono a farsi delle domande su come le pratiche culturali, qiali lasciare ceramiche e altri tributi, persistettero nel West Kennet Long Barrow a fronte di quegli sconvolgimenti. “Definirei molti di questi documenti come ‘mappa e descrivi’. Stanno osservando il movimento delle firme genetiche, ma in termini di come o perché ciò sta accadendo, quelle cose non vengono studiate”, dice Carlin, che non è più disturbato dalla disconnessione tra i due approcci. “Mi sto riconciliando sempre di più con l’idea che l’archeologia e il DNA antico stiano raccontando storie diverse”. I cambiamenti nelle pratiche culturali e sociali che studia potrebbero coincidere con gli spostamenti delle popolazion iche Reich e il suo team gruppo stanno scoprendo, ma non devono farlo necessariamente. E tali intuizioni biologiche non spiegheranno mai completamente le esperienze umane catturate dalla documentazione archeologica.
Reich concorda che il suo campo sia in una “fase di mappatura” e che la genetica stia solo delineando i contorni sfumati del passato. Le conclusioni generiche, come quelle presentate negli articoli del 2015 sulle migrazioni dalla steppa, lasceranno il posto a studi focalizzati a livello regionale e più precisini.
Questo sta già iniziando a succedere. Anche se lo studio sulla cultura dei vasi campaniformi ha trovato un profondo cambiamento nel profilo genetico della Gran Bretagna, ha respinto l’idea che il fenomeno culturale fosse associato a una singola popolazione. In Iberia, le persone sepolte con oggetti della cultura del vaso campaniforme erano strettamente legate alle popolazioni locali precedenti e condividevano un’ascendenza limitata con individui associati alla cultura del vaso campaniforme dell’Europa settentrionale (che erano imparentati con gruppi delle steppe come gli Yamnaya). Furono i vasi a spostarsi, non le persone. Reich descrive il suo ruolo di “ostetrica” che consegna la tecnologia del DNA antico agli archeologi, che possono applicarla come ritengono più opportuno. “Gli archeologi abbracceranno questa tecnologia e non saranno dei luddisti”, prevede, “e faranno la loro parte”.
Incastonata in una quieta valle nello stato della Turingia, nell’ex Germania dell’Est, la città di Jena è diventata un improbabile centro di convergenza tra archeologia e genetica. Nel 2014, la prestigiosa Max Planck Society ha fondato un Istituto per la Scienza della storia umana e ha nominato una stella nascente nella ricerca sul DNA antico, Johannes Krause, come direttore. Krause era un protetto del genetista Svante Pääbo, presso il Max-Planck-Institut per l’Antropologia evoluzionistica di Lipsia. Lì, Krause ha lavorato sul genoma di Neanderthal 10 e contribuito a scoprire un nuovo gruppo umano arcaico, quello dei Denisovani.
Mentre Pääbo si concentrava sull’applicazione della genetica alle questioni biologiche sugli esseri umani antichi e sui loro parenti, Krause vide una portata più ampia per la tecnologia. Prima di dirigere l’istituto Jena, con il suo gruppo identificò il DNA dei batteri che causarono la peste nei denti delle persone uccise dalla Peste Nera nel XIVsecolo, presentando la prima prova diretta di una potenziale causa della pandemia. A Jena, Krause sperava di utilizzare la genetica non solo in periodi “preistorici” come il Neolitico e l’Età del Bronzo, dove i metodi archeologici sono lo strumento principale per ricostruire il passato, ma anche in tempi più recenti. Il coinvolgimento degli storici è ancora in corso, ma l’archeologia e la genetica sono completamente integrate nell’istituto. Il dipartimento che Krause dirige è chiamato anche archeogenetica. “Dobbiamo essere interdisciplinari”, dice, perché i genetisti stanno affrontando domande e periodi di tempo che archeologi, linguisti e storici stanno esaminando da decenni.
Krause e il suo team sono stati molto coinvolti nella creazione di mappe di genomica antica (ha lavorato a stretto contatto con il gruppo di Reich su molti di questi progetti). Ma uno studio pubblicato alla fine dell’anno scorso che si concentrava sulla transizione tra il Neolitico e l’età del bronzo in Germania ha ottenuto l’approvazione degli archeologi che erano scettici sugli studi sul DNA antico su larga scala.
Guidato da Stockhammer, che ha anche un incarico presso l’istituto di Jena, il team ha analizzato 84 scheletri di età neolitica e dell’età del bronzo della valle del Lech meridionale della Baviera, risalenti tra il 2500 e il 1700 a.C. La diversità nei genomi delle strutture cellulari conosciute come mitocondri, che sono ereditate per via materna, durante quel periodo aumentò, suggerendo un afflusso di donne. Contemporaneamente, i livelli nei denti di isotopi dello stronzio, che si fissano durante l’infanzia, hanno suggerito che la maggior parte delle donne non era del luogo. In un caso, due individui imparentati vissuti poche generazioni l’uno dall’altro sono stati trovati sepolti con culture materiali diverse . In altre parole, alcuni cambiamenti culturali nella documentazione archeologica potrebbero essere dovuti non a migrazioni massicce, ma alla sistematica mobilità di singole donne.
È la prospettiva di più studi di questo tipo che ha attirato gli archeologi verso il DNA antico. Nel prossimo futuro, dice Stockhammer, gli archeologi saranno in grado di sequenziare i genomi di tutti gli individui di un luogo di sepoltura e costruire un albero genealogico locale, determinando anche il modo in cui gli individui si inseriscono in modelli di discendenza più grandi. Ciò dovrebbe consentire ai ricercatori di capire il rapporto tra la parentela biologica e l’ereditarietà della cultura materiale o dello status. “Queste sono le grandi domande della storia. Ora possono essere risolte solo con la collaborazione”, afferma Stockhammer.
Un altro assaggio di questo approccio è apparso a febbraio sul server di preprint bioRxiv. L’articolo analizza il periodo delle migrazioni in Europa, quando “orde di barbari” riempirono il vuoto lasciato dalla caduta dell’Impero romano. Un gruppo di genetisti, archeologi e storici ha costruito alberi genealogici di 63 individui provenienti da due cimiteri medievali in Ungheria e nel nord Italia associati ai Longobardi. Hanno scoperto testimonianze di forestieri di alto rango sepolti nel cimitero: la maggior parte mostra un’ascendenza genetica dell’Europa centrale e settentrionale che differiva da quella della popolazione locale, tendenzialmente sepolta senza beni, corroborando provvisoriamente l’idea che alcuni gruppi barbari includessero forestieri.
Patrick Geary, storico del Medioevo dell’Institute for Advanced Study di Princeton, che ha co-diretto lo studio sui Longobardi, non ha voluto commentare la ricerca perché è attualmente in corso il processo di revisione. Ma dice che anche gli studi genetici su epoche storiche, come quello sull’epoca delle migrazioni, nascondono alcune insidie. Gli storici stanno integrando nel loro lavoro sempre più dati, come le registrazioni paleoclimatiche, e faranno lo stesso con il DNA antico, dice Geary. Ma condividono i timori degli archeologi che la biologia e la cultura vengano fuse, e che designazioni problematiche come Franchi o Goti o Vichinghi saranno reificate da profili genetici, superando le intuizioni su come i popoli antichi vedevano se stessi. “Ial giorno d’oggi, ciò che gli storici vogliono conoscere è l’identità”, dice. “La genetica non può rispondere a queste domande”.
Reich ammette che il suo campo di ricerca non ha gestito sempre il passato con l’accuratezza o l’attenzione ale sfumature che vorrebbero gli archeologi e gli storici. Ma spera che alla fine saranno influenzati dalle illuminazioni che può portare il suo campo. “Siamo barbari che arrivano in ritardo allo studio del passato umano”, dice Reich. “Ma è pericoloso ignorare i barbari.”
(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su Nature il 28 marzo 2018. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)
Autore: Ewen Callaway/Nature
Fonte: www.lescienze.it, 28 aprile 2018