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AOSTA. Le tribù del Caucaso che arrivarono ad Aosta.

Migranti di scienza. Dall’Asia minore alle Alpi e oltre, alla Scozia e alla Scandinavia. Lungo i fiumi. Una migrazione del terzo millennio prima di Cristo, Età del bronzo, da leggere in pagine di terra che coprono un ettaro, nella zona occidentale di Aosta. Sette metri di civiltà stratificate, da antichi riti dei vivi alle sepolture.
Uomini venuti dal Caucaso, come suppose e teorizzò l’archeologo Franco Mezzena che s’imbatté in questo tesoro nel lontano 1969. E oggi prove sofisticate sul Dna dei defunti inumati in quell’area oltre 4500 anni fa gli danno ragione: Caucaso. Così scrive la professoressa Olga Rickards, dipartimento di Biologia, Università Tor Vergata di Roma.
È fra i massimi esperti del Dna antico. La Regione Valle d’Aosta le ha commissionato la ricerca su venti femori della tomba numero 2 dell’area megalitica di Saint-Martin de Corleans, quell’ettaro di terra bicolore, tra il nocciola chiaro e il caffé, che fa da ponte di civiltà tra Mediterraneo e Baltico. Dna che fa scrivere alla professoressa Rickards sull’origine caucasica di coloro che raggiunsero le Alpi dall’Anatolia. Ricorda la cultura Yamnaya che «ha colonizzato l’Europa centrale e l’Italia durante l’Età del bronzo». Un percorso ancora tutto da esplorare, una storia d’Europa che avrebbe un seme 25 mila fa, in quella popolazione di pastori che per fuggire alla glaciazione si rintanarono nel Caucaso.
Domani si apriranno le porte del sito archeologico aostano, si potranno seguire i cammini di antichi antenati. Di coloro che popolarono anche la piana di Aosta e di cui si sono perse le tracce di mura, abitazioni e attività, non della loro area rituale. Il grande museo finanziato dall’Europa (circa 6 milioni per allestimento e comunicazione) offre una lettura d’ogni passo fatto da quel lontano popolo. E porta a intrecciare la scienza con il mito. Conflitti tra uomini e dei, lotte titaniche, quasi come la costruzione del museo dell’area megalitica, cominciato nel 2005 e costato venti milioni. Il sovrintendente ai Beni Culturali della Regione, Roberto Domaine, dice: «Vengono i brividi a pensare le civiltà che qui si sono succedute. Bisogna lasciarsi sorprendere e scoprire questo luogo che ha una continuità di funzione».
Continuità di rito: dall’aratura propiziatoria del terreno (migliaia di metri quadrati) di forse seimila anni fa (la datazione dell’invenzione sumerica dell’aratro sarebbe così da retrodatare di un millennio) alle sepolture celtiche, romane e alla chiesetta di Saint-Martin, datata 1200. Dedicata al santo che ha cristianizzato più di altri i riti pagani. Il sovrintendente parla anche di «approccio con il mito».
L’aratura, la semina dei denti umani, i 24 pali conficcati nel terreno, le stele antropomorfe (alcune alte 3 metri) riconducono al mito degli Argonauti e alla visione che Mezzena descrisse già molti anni fa con tanto di cartine. Ma ora l’esame del Dna delle ossa della tomba a forma di prua di nave, al centro dell’area di quattromila metri quadrati, cuore del museo, pare offrire conferma. L’archeologo che ha lavorato in questa terra tutta la vita, dice: «Gli argonauti erano descritti come i migranti dell’Età del bronzo come marinai di fiume. Viaggio di scienziati dei metalli. Paiono seguire il mito di Giasone, Eracle, Cadmo. Fu l’inizio di una civiltà industriale. Per fiume viaggiarono in tutta Europa. Danubio, Vistola, Rodano e Reno. E la Valle d’Aosta aveva i valichi per raggiungere sia il Reno a Nord, sia il Rodano a Ovest».
Fra le leggendarie fatiche di Eracle ci sono anche le Alpi. L’attraversamento dell’eroe non era altro, secondo Mezzena, che il mito del passaggio dell’epoca al Piccolo San Bernardo. Al valico è visibile un cromlec di oltre 70 metri di diametro. Le stele antropomorfe sono state trovate sia sul Mar Nero (Crimea) sia lungo il corso dei grandi fiumi europei. Quindi in Spagna e Scozia. Ancora Mezzena: «Quei viaggi aprirono anche la strada al commercio dei metalli. Lo stagno, elemento base per il bronzo, si trovava in Cornovaglia. Cercavano nuove miniere. La Mesopotamia era affamata d’oro e allora non si poteva scavare in profondità, quindi i filoni si esaurivano in fretta». Quelle 17 generazioni prima della sua, di cui scrive Omero per datare il mitico viaggio di Giasone è dunque da collocare nell’Età del bronzo? Difficile dare risposta.
Certo è che nella leggenda persa in anni indefiniti Aosta si chiamava Cordelia ed era governata da un re di nome Cordelo. Ancora oggi in Turchia, sul Mar Nero, c’è un villaggio Cordele e c’è Cordylus nell’Egeo, di fronte a Rodi. La tomba a forma di prua di nave ricorda quelle dei Vichinghi. E il loro rito, ancora ricordato oggi nel Sud della Svezia con il passaggio simbolico di una nave su un’aratura, trova testimonianza nell’area megalitica aostana.

Autore: Enrico Martinet

Fonte: La Stampa, 23 giugno 2016

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