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SICILIA. Geofisico friulano scopre monolite di novemila anni.

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È una scoperta in grado di scompaginare i libri di storia. Quella antica, anzi antichissima. Roba da scomodare finanche il “Washington Post”, che dall’altro capo del mondo non ha esitato a comporre un numero di telefono friulano pur di saperne di più.
Già, perchè a individuare, filmare e mappare, per la prima volta, un sito archeologico sommerso nel canale di Sicilia e risalente a più di 9500 anni fa è stato un geofisico marino di Mortegliano.
«Provata l’esistenza già 9500 anni fa di una civiltà con capacità tecniche evolute»
L’intervista al geofisico friulano che ha scoperto un monolite di oltre novemila anni fa nel mar di Sicilia. Si chiama Emanuele Lodolo, ha 53 anni, lavora all’Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale (Ogs) di Trieste e da qualche settimana, sul suo curriculum, vanta una pubblicazione anche sul “Journal of archaeological science: reports”, la più prestigiosa rivista di archeologia in campo internazionale.
Un autentico “imprimatur” allo straordinario risultato ottenuto in anni di ricerche nel mar Mediterraneo.
La svolta è arrivata lo scorso settembre, con il ritrovamento di un monolito lungo 12 metri, adagiato sul fondale, a una quarantina di metri di profondità e una sessantina dalla costa.
Non un “menhir” qualsiasi, ma un blocco di pietra lavorato, con una serie di fori regolari su alcuni dei suoi lati e un altro foro che lo attraversa per intero in una sua estremità. Quando se lo sono ritrovato davanti, i sub della “Global underwater explorers” Francesco Spaggiari e Fabio Leonardi hanno stentato a credere ai loro occhi.
E, una volta a galla, hanno urlato di gioia insieme a tutto il resto del team: quel parallelepipedo rappresentava (e rappresenta) esattamente ciò che stavano cercando. La conferma alla montagna di rilievi che i geologi dell’Ogs conducono con incrollabile fiducia dal 2009, quando iniziarono le osservazioni a bordo della nave “Ogs-Explora”. Ora, al posto delle ipotesi c’è una certezza granitica.
Un macigno pesante una dozzina di tonnellate almeno.
È lo stesso Lodolo a riferirlo sulla “Bibbia” dell’archeologia mondiale: il rinvenimento del monolito testimonia la presenza in quel lembo del Mediterraneo di un insediamento, e quindi di una civiltà, databile al Mesolitico, quando il livello globale del mare era più basso di oltre 40 metri.
I dati dimostrano, cioè, che già a quell’epoca l’uomo aveva occupato alcune isole che, sino a circa 9000 anni fa, punteggiavano il settore nord-occidentale del canale di Sicilia. L’arcipelago, che un tempo si estendeva tra le coste della Sicilia e l’isola di Pantelleria, fu progressivamente inghiottito dall’innalzamento del mare, seguito allo scioglimento della calotta di ghiaccio che copriva buona parte dell’odierna Europa settentrionale durante l’ultimo massimo glaciale (18000 anni fa).
Affermazioni, le sue, capaci di rimbalzare da un sito all’altro della stampa specializzata internazionale alla velocità della luce.
Condotta in collaborazione con l’università di Tel Aviv e con l’Arma dei carabinieri, la ricerca ha dunque il merito di avere portato alla luce uno dei siti sommersi più antichi sino a oggi conosciuti, coevo nientedimeno che alle strutture di Göbekli Tepe, in Turchia, il primo esempio noto di “tempio in pietra”.
A certificarlo, ovviamente, è la marea di analisi effettuate su ciascuno dei dati raccolti: batimetria ad alta risoluzione, campionamenti, osservazioni fotografiche e video. Dati che, messi a confronto con l’andamento della variazione del livello del mare, hanno permesso di ricostruire la storia dell’abbandono del sito.
Avvenuta, si badi bene, qualcosa come 9500 anni fa. Le sorprese, comunque, non sono affatto terminate e i primi a scommetterci, carte alla mano, sono i blasonatissimi esploratori degli abissi targati Fvg.
E adesso? Ora si prosegue con i rilievi, per arrivare a mappe sempre più dettagliate dal punto di vista geofisico e per assegnare così un contorno più preciso alle attività umane svolte in quell’insediamento 9500 anni fa.
«Intanto, abbiamo stabilito che lì c’era qualcosa di stanziale – spiega Emanuele Lodolo. Abbiamo cioè riesumato le radici di quella civiltà. E lo abbiamo fatto con dati scientifici».
Sotto quelle stesse acque, però, c’è molto altro ancora e la sua spedizione ha già trovato testimonianze non meno eccezionali.
«Diversi mesi prima del monolite – continua Lodolo –, avevamo individuato una specie di muro lungo 820 metri e formato da pietroni di 5 metri per 5 che chiudono una baia. Qualcosa di troppo regolare e chiaramente rimodellato: a nostro avviso, una specie di diga di contenimento contro il progressivo innalzamento del mare, a protezione del villaggio. La spiegazione che ci siamo dati – continua – è che quel sito avesse un’importanza strategica. Purtroppo, però, non disponiamo di elementi scientifici altrettanto inattaccabili e tali da escludere che si tratti invece di una formazione naturale. Quel che ci manca ancora, in altre parole, è la cosiddetta “pistola fumante”. Secondo i nostri studi, comunque, la composizione delle rocce è la stessa di quelle del monolito».
A riprova di quanto evoluta fosse la gente che viveva in quel sito. «La convinzione che i nostri antenati non avessero le conoscenze, l’abilità e la tecnologia per sfruttare le risorse naturali e fare traversate marittime – afferma Lodolo –, deve essere progressivamente abbandonata. Le recenti scoperte di archeologia sommersa hanno definitivamente eliminato il concetto di “primitivismo tecnologico”, spesso attribuito ai cacciatori-raccoglitori delle zone costiere».
La loro strordinaria esperienza di Lodolo e del suo team consegna anche un altro messaggio decisivo alle generazioni di ricercatori presenti e future.
«Per andare a caccia delle vestigia della nostra civiltà nella regione del Mediterraneo – dice il geofisico marino di Mortegliano –, bisogna concentrare le ricerche nelle aree di mare basso delle nostre piattaforme continentali. È lì, sotto quelle acque, che una vasta documentazione archeologica dei primi insediamenti umani giace ancora sepolta. Penso che questa sia la vera sfida dell’archeologia moderna».
Per lui, intanto, i trofei capaci di compensare anni di studi, attese e riscontri, sono davvero arrivati. L’emozione più grande?
«Ricordo in particolare due momenti – racconta –. Il primo, quando uno dei sub, una volta emerso, ha esclamato: “Mah, a me sembra che questa cosa non sia naturale”. Detto da un professionista come lui, è suonato come il migliore incentivo a proseguire lungo la strada intrapresa. Il secondo, lo scorso settembre, quando abbiamo trovato il monolito.
“Là sotto – ci hanno detto i sub – c’è una pietra enorme con un buco in testa. Avete trovato quel che cercavate”. E poi, quando abbiamo visto i filmati, è stato pathos allo stato puro».

Autore: Luana de Francisco

Fonte: MessaggeroVeneto.it, 7 ago 2015

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