Le proporzioni della nostra mano sono cambiate molto poco rispetto a quelle dell’ultimo antenato comune fra noi e gli scimpanzé, suggerendo che la struttura della mano umana moderna sia in gran parte primitiva, e non il prodotto di pressioni selettive legate alla fabbricazione dei primi utensili di pietra. E’ questa la conclusione a cui sono giunti tre ricercatori della George Washington University a Washington e della Stony Brook University a New York che firmano un articolo pubblicato su “Nature Communications”.
Rispetto alle altre dita, le nostre mani hanno pollici relativamente molto più lunghi di quelli delle altre scimmie, ivi comprese le scimmie antropomorfe a noi più strettamente imparentate. Questo è un tratto molto caratteristico della specie umana, ed è stato spesso citato come uno dei fattori principali del successo della nostra specie, la cui evoluzione sarebbe stata trainata da forti pressioni selettive legate alla fabbricazione dei primi utensili di pietra oppure, secondo un’altra ipotesi, come sottoprodotto dei drastici cambiamenti nella morfologia del piede dovuti allo sviluppo di un bipedismo perfetto.
Di conseguenza, l’ultimo antenato comune all’uomo e allo scimpanzé avrebbe dovuto avere una mano più simile a quella di quest’ultimo, un’ipotesi che sembrò rafforzata dalle analisi genetiche e molecolari effettuate a partire dalla fine degli anni novanta: per un principio di economia, sembrava verosimile che l’unicità della mano umana fosse dovuta soprattutto alla forte divergenza evolutiva della nostra specie.
Sergio Almécija e colleghi hanno ora condotto un’accurata analisi sistematica delle proporzioni intrinseche della mano (ossia delle sue dimensioni e della lunghezza di tutte le dita) sia delle sue proporzioni estrinseche (ossia delle proporzioni delle mani in rapporto agli arti e alle dimensioni del corpo) negli esseri umani, in un gruppo di scimmie (fra cui tutte le grandi scimmie) e in una serie di fossili dei nostri antenati (Ardipithecus ramidus, Australopithecus sediba, Proconsul heseloni, Hispanopithecus laietanus).
Dal confronto dei dati raccolti è emerso che in realtà non esiste affatto una struttura della mano sostanzialmente comune a tutti i primati non umani contrapposta a una mano umana divergente. Al contrario, in tutti i primati non umani si osservano linee evolutive divergenti che hanno portato a forti specializzazioni. Di fatto, la mano che si discosta di meno da quella degli esemplari fossili, e quindi presumibilmente da quella dell’ultimo antenato comune fra l’uomo e altri primati, è proprio la mano della nostra specie.
Questa conclusione riporta alla ribalta la teoria evolutiva più accreditata nella prima metà del secolo scorso, secondo cui la specializzazione degli arti superiori e delle mani avrebbe interessato più le scimmie dell’uomo; il quale, almeno per quanto riguarda questi tratti, avrebbe conservato caratteristiche più “primitive”.
Fonte: www.lescienze.it, 14 lug 2015