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MORUZZO (Ud). VINUM SETINUM, un trapianto d’eta’ traianea.

vitis setina a

Una etichetta di piombo con notizie sulla viticoltura.
Nel corso della campagna 2013 nella pars rustica della villa di Moruzzo, condotta dalla Società friulana di archeologia per conto del Comune di Moruzzo, è stata rinvenuta un’etichetta di piombo che reca graffita la scritta
Commodo et Ceriali / co(n)s(ulibus) vitis / Set[i]na
I nomi dei consoli riportano all’anno 106 d. C., quando furono acquistate barbatelle di una qualità molto pregiata fin dal tempo di Augusto. Esse venivano dall’agro Pontino, ovvero dai dintorni della città di Sezze, ove si produceva uno dei vini più famosi, il vinum Setinum celebrato verso la fine del I secolo d. C. ad esempio da Plinio il vecchio (tra 70 e 79 d. C.), da Marziale, in quegli stessi anni o poco dopo e da Giovenale nei primi decenni del II secolo.
L’etichetta dunque ci informa che allora qualcuno acquistò viti nel Lazio per piantarle nella sua proprietà nell’area collinare. La notizia acquista assoluto rilievo di carattere nazionale ove si pensi a un famoso editto di Domiziano. Esso, posto da Eusebio, un tardo storico romano, intorno all’anno 92, proibiva d’impiantare nuovi vigneti in Italia e imponeva di estirpare per la metà le viti esistenti nelle province. Svetonio, il più antico biografo di Domiziano, lascia intendere che l’editto non fu applicato: esso creò in Asia Minore, specialmente a Efeso, tali reazioni che dovette essere ritirato o per lo meno mitigato fino alla sua totale abrogazione avvenuta solo nel III sec. d. C. Sull’effettivo intendimento dell’editto generazioni di storici hanno discusso: molti hanno ritenuto che esso fosse stato determinato da una sovrapproduzione di vino in Italia e dalla necessità di tener alti i prezzi. Da un passo di una lettera di Plinio il Giovane, scritta intorno al 107 d. C., sappiamo poi che il senato aveva predisposto un decreto per obbligare i senatori provinciali ad investire un terzo del loro patrimonio in terreni italiani, “perché Roma e l’Italia non erano stalla di compiaciuti stranieri, ma patria di Romani”.
Non possiamo certo dire che l’area di Moruzzo sia stata occasione e luogo di investimento da parte di un senatore provinciale, ma l’etichetta dimostra incontestabilmente un “ritorno alla viticoltura” in età traianea, con un investimento in colture pregiate come poi fece nel XVIII secolo Fabio Asquini per le sue piantagioni di Picolit a Fagagna, fin dal 1761. Il rinvenimento ci dà anche importanti informazioni sulle colture antiche dell’area collinare, ben diverse da quelle attuali derivate dalla tradizione ottocentesca dopo le malattie allora diffusesi.
Lo scavo ha poi prodotto quattro scheletri di bovini, vittime di una epidemia bovina nell’ultima fase dell’insediamento, sepolti quando i locali erano già stati dismessi. Sembra suggestivo pensare a quella pestilenza che all’inizio del V secolo d. C. ispirò il poemetto di Endelechio de morte bovina o che lasciò traccia anche in un famoso passo di Rufino di Concordia, scritto tra fine 401 e inizio 402. I resti sono ora sottoposti all’esame del DNA che sarà effettuato dall’équipe del prof. Paolo Ajmone Marsan dell’Università Cattolica di Piacenza in collaborazione con l’équipe del prof. Raffaele Testolin dell’Istituto di genomica applicata dell’Università di Udine.
Lo studio intrapreso potrà dunque dare risultati di grandissimo interesse per la storia economica del Friuli centrale in epoca romana.

Autore: Maurizio Buora – archeofriuli@gmail.com

Fonte: Messaggero Veneto, 11 agosto 2013

 

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