Tempi di spending review, e trovare un tesoro è diventato un lusso che le martoriate casse del ministero dei Beni culturali non si possono più permettere. In estrema sintesi: non si scava più.
Se nulla cambia, gli archeologi italiani faranno bene a rassegnarsi ad appendere la pala al chiodo. Secondo la legge, i beni di interesse archeologico, da chiunque o in qualunque modo scoperti, sono di proprietà dello Stato. E fin qui tutto bene. Il problema sta tutto nel cosiddetto «Premio di rinvenimento».
Se il terreno dove si scava è di proprietà di un privato, oltre a un indennizzo per l’occupazione del suolo previsto per tutto il periodo degli scavi, al proprietario del fondo spetta anche un quarto del valore dei beni scoperti.
Meglio prevenire che curare, recita il vecchio adagio. Così il ministero dei Beni culturali con una circolare del 4 dicembre scorso indirizzata alle soprintendenze ha stabilito che a causa «dei crescenti costi per la corresponsione di premi di rinvenimento ai privati proprietari, non saranno più date concessioni per interventi in terreni privati, salvo particolari e motivate esigenze».
Gli scavi archeologici in regime di concessione sono più di 400, equamente distribuiti lungo tutta la Penisola. Dal Veneto alla Puglia, in questi giorni iniziano ad arrivare le prime lettere delle soprintendenze incaricate di rispedire al mittente tutte le richieste di scavi archeologici su terreni privati. La formula è sempre la stessa: «Parere negativo alla richiesta di concessione per il 2012», perché «l’area delle ricerche è in proprietà privata».
«In molti casi si tratta di un falso problema, perché la grande maggioranza dei privati mette a disposizione il terreno a titolo gratuito e rinuncia preventivamente alla parte che gli spetterebbe nel caso di una scoperta di valore», commenta Enrico Zanini, professore ordinario di Archeologia dell’Università di Siena – senza contare che sono considerate come “privati” anche le fondazioni». Un bel paradosso.
Uno dei casi più eclatanti è lo scavo archeologico di Torba, in provincia di Varese, proposto e finanziato dal Fai, il Fondo per l’ambiente italiano, e nato per valorizzare l’area archeologica del borgo e del castello dell’antica Castelseprio, dichiarata patrimonio dell’Umanità dall’Unesco.
Il progetto, iniziato nel 2011 sotto la direzione del professor Gian Pietro Brogiolo dell’università di Padova, non potrà continuare per il 2013, proprio perché l’area è di proprietà del Fai, che in quanto fondazione è considerata un ente di diritto privato. Ironia della sorte, dal febbraio scorso il presidente del Fai è Andrea Caradini, tra i più illustri archeologi italiani.
A rischio non è soltanto il patrimonio culturale, ma anche la formazione delle future generazioni di archeologi. «Per fortuna il livello di preparazione degli archeologi italiani è molto buono e non è un caso: hanno la grande opportunità di imparare sul campo – spiega Zanini – ma se cosi tanti scavi in concessione sono bloccati, la prima conseguenza è che un’intera generazione non saprà più scavare. E poi si blocca la ricerca. Non è assurdo pensare che si scaverà non più dove si pensa di trovare qualche cosa, ma solo in base alla proprietà del terreno?».
Assurdo sì, eppure la soluzione non sembra vicina. «Vorrei invitare tutti a fare una riflessione. Bloccando gli scavi perdiamo tutti qualche cosa. La scavo oggi non è solo scoperta, serve a raccontare delle storie. Bloccare i parchi archeologici è un po’ come decidere di non scrivere più libri solo perché ne sono già stati scritti troppi».
Autore: Nadia Ferrigo
Fonte: http://www.lastampa.it, 11 mar 2013