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NAPOLI. Le preziose coppe di Stabiae tornano al Museo Archeologico.

Sono ritornate al loro posto le «Coppe di Stabiae». Restaurate. Splendide nei colori rossi, bianchi e gialli delle paste vitree, nell’argento e nell’oro che le impreziosisce. I tre skyphoi di ossidiana (sono coppe a forma di tazza con due anse orizzontali, usate in antico per bere vino) sono di nuovo in mostra al Museo Archeologico nazionale di Napoli.
Tornano a essere visibili a diciassette mesi dal giorno dell’incidente – era il 30 maggio del 2011 – quando si ridussero in mille pezzi a causa del cedimento dalla mensola sulla quale erano esposte. La nuova sistemazione, in una vetrina a prova di urto per proteggere uno tra i reperti più belli mai scavati nell’area vesuviano-stabiese, è stata effettuata nel pomeriggio di ieri l’altro.
La sala che le ha accolte, e che le vede in mostra accanto ai reperti ceramici e invetriati di Pompei, Ercolano e Oplontis, è al primo piano del museo accanto al Salone della Meridiana. A restaurare le coppe sono stati gli specialisti del Laboratorio di restauro della Soprintendenza archeologica, coordinati dalla direttrice Luisa Melillo. Un recupero che è stato particolarmente difficile perché l’ossidiana, che è un vetro naturale di origine vulcanica, richiede tecniche e tempi di fissaggio estremamente lunghi e complessi. Ancor più perché i vasi erano già stati restaurati.
Quando vennero trovati, il 21 giugno del 1954 nella Villa San Marco, prossimo alle terme della domus, gli scavatori impiegarono circa quaranta ore per liberare da cenere e lapilli tutti i frammenti che costituivano le coppe. E anche allora servirono due anni di lavoro per assemblare perfettamente i minuscoli pezzi. Assieme alle coppe vennero trovati anche alcuni frammenti di ossidiana appartenuti a una Phiale (recipiente circolare, senza manici, usato per offerte di vino, latte, miele, agli dei) ancor più preziosa delle coppe se fosse stata rinvenuta integralmente. Per le «tazze» di Stabiae, alcuni studiosi hanno ipotizzato una origine nell’area delle isole Lipari. Altri esperti, e tra essi Stefano De Caro, sono per una provenienza egizio-alessandrina dei manufatti, considerate figure, schemi e tecniche costruttorie e decorative. La loro lavorazione, dunque, sarebbe state effettuata ad Alessandria e sarebbero databili al I-II secolo avanti Cristo. Inoltre, va considerato anche che le figure sulle coppe sono le uniche che gli studiosi riconoscono come autentiche rappresentazioni egizie in Campania.
I personaggi riportati lungo la superficie esterna dei due vasi gemelli propongono edifici e personaggi: un tempietto intarsiato con corallo e malachite; gli offerenti, maschi e donne, che vestono abiti colorati ornati di perle. La donna è coperta da una tunica lunga fino alle caviglie e indossa una collana, la mano destra è alzata in atto di adorazione. Sono rappresentati anche il bue Api, il falco Horus e Ibis -Toth, divinità mitologiche egiziane. Di gusto floreale, invece, la decorazione del terzo vaso, sul quale si notano alberi e fiori sui cui steli sono poggiati degli uccelli. Il lavoro di recupero, considerati i tanti particolari che andavano rimessi al posto giusto, è stato complesso – come spiegano dalla Soprintendenza – soprattutto per far combaciare le decorazioni.
«Solo qualche scalfittura è ancora rimasta – sottolineano con orgoglio – ma è talmente esigua che non inficia la loro bellezza».

Fonte: Il Mattino, 16 nov 2012

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