La concessione dei territori da parte delle massime autorità dipendeva da favoritismi nei confronti dei cortigiani, da motivi di convenienza per legare al carro del potere centrale famiglie importanti, da premi per meriti particolari acquisiti oppure, più direttamente, da guerre di conquista vinte sul campo da quegli stessi condottieri che sarebbero diventati padroni, spesso tiranni, delle proprietà sottratte con la forza oppure combinate con matrimoni di comodo.
Il Signore del latifondo, per mantenere intatte le acquisizioni di terre ereditate o estorte, si avvaleva di milizie private, si legava al feudo vicino con promesse di reciproca fedeltà, si avvaleva dei rapporti intercorsi con la nobiltà per stabilire il diritto di proprietà.
L’istituto del feudo, al di là dei numerosi episodi di prevaricazione e di brutalità, fu un mezzo per governare territori abitati da popolazioni spesso turbolente. L’ordine e la disciplina avevano la loro contropartita nelle imposizioni di varia natura da parte del Signore e dei suoi accoliti. Il potere centrale, Regno o Impero, concedendo potere al vassallo aveva il controllo su vaste aree con meno impegno di forze proprie e con il vantaggio di trattare con famiglie fedeli e ligie al patto di sudditanza.
Il valore di questa istituzione inserita in un’economia essenzialmente agricola si rivelò positiva per i governi medioevali poiché amministrazione, politica sociale e attività militare riuscirono ad uniformarsi alle esigenze di territori delimitati (il vocabolo di origine celtica ‘vassallo’ indicava un guerriero sotto la protezione di un Signore più potente al quale forniva ‘consiglio e aiuto’, ovvero essere a disposizione per il disimpegno dell’amministrazione pubblica e per il servizio militare).
La gerarchia feudale fu per un lungo periodo un fenomeno utile sia a chi elargiva vitalizi ereditari sia a chi, assumendone la delega, poteva coordinare le risorse umane e naturali poste sotto il suo controllo ‘in nome di Sua Maestà’. Esigenza primaria da parte del nobile Signore era quella di avere a disposizione un edificio fortificato con torri e bastioni, possibilmente in posizione dominante, da usare come dimora personale per difendersi dalle non improbabili incursioni e dal quale governare il suo feudo.
Il Castello e l’abitato di Giustenice San Michele nel savonese, dalla caduta dell’impero bizantino cambiarono diversi padroni: il Papa, i Longobardi, i Vescovi di Albenga, i Del Carretto, la Repubblica di Genova. Ciò che continuava con pochi mutamenti era la routine della gente comune in un sistema economico nel quale il baratto rimaneva uno dei mezzi per dare ed avere beni e prestazioni. Il Signore si limitava a fornire protezione in caso di guerra e sostegno in periodo di carestia: il vassallo doveva offrire come contropartita il versamento regolare di quote sotto forma di servizi e gabelle, spesso vessatorie. Boccaccio dice del Signore “ciascuno e castella e vassalli aveva sotto di sé”, Machiavelli chiama il borgo “castello di cento case”.
La terminologia legata a questo tipo di abitazione-fortezza è piena di richiami obsoleti: ponte levatoio, postierla o porta minore, maschio o mastio o cassero, merlo guelfo e ghibellino, cammino di ronda, saettiera, archibusiera, bertesca, balestriera. Le segrete – luoghi di detenzione e tortura, solitamente relegate nelle torri o nei sotterranei – riecheggiano tuttora la pena dei ceppi, della gogna, della strappata di fune, del banco di stiramento, della vergine di ferro e della gabbia nella quale si rinchiudeva il condannato fino alla morte per inedia: un armamentario di strumenti sinistri che la coscienza dell’uomo moderno ha modificato senza avere tuttavia la dignità civile e morale di abbandonarli completamente. Sulle mura vegliano le scolte armate di picche, la taverna – ritrovo dei villani e spesso luogo di risse – serve vino pesante, le porte delle mura sono chiuse ma pronte ad aprirsi per accogliere la gente in caso di pericolo: insomma, il castello come estremo baluardo e via di fuga per tutti.
Il Signore del latifondo, per mantenere intatte le acquisizioni di terre ereditate o estorte, si avvaleva di milizie private, si legava al feudo vicino con promesse di reciproca fedeltà, si avvaleva dei rapporti intercorsi con la nobiltà per stabilire il diritto di proprietà.
L’istituto del feudo, al di là dei numerosi episodi di prevaricazione e di brutalità, fu un mezzo per governare territori abitati da popolazioni spesso turbolente. L’ordine e la disciplina avevano la loro contropartita nelle imposizioni di varia natura da parte del Signore e dei suoi accoliti. Il potere centrale, Regno o Impero, concedendo potere al vassallo aveva il controllo su vaste aree con meno impegno di forze proprie e con il vantaggio di trattare con famiglie fedeli e ligie al patto di sudditanza.
Il valore di questa istituzione inserita in un’economia essenzialmente agricola si rivelò positiva per i governi medioevali poiché amministrazione, politica sociale e attività militare riuscirono ad uniformarsi alle esigenze di territori delimitati (il vocabolo di origine celtica ‘vassallo’ indicava un guerriero sotto la protezione di un Signore più potente al quale forniva ‘consiglio e aiuto’, ovvero essere a disposizione per il disimpegno dell’amministrazione pubblica e per il servizio militare).
La gerarchia feudale fu per un lungo periodo un fenomeno utile sia a chi elargiva vitalizi ereditari sia a chi, assumendone la delega, poteva coordinare le risorse umane e naturali poste sotto il suo controllo ‘in nome di Sua Maestà’. Esigenza primaria da parte del nobile Signore era quella di avere a disposizione un edificio fortificato con torri e bastioni, possibilmente in posizione dominante, da usare come dimora personale per difendersi dalle non improbabili incursioni e dal quale governare il suo feudo.
Il Castello e l’abitato di Giustenice San Michele nel savonese, dalla caduta dell’impero bizantino cambiarono diversi padroni: il Papa, i Longobardi, i Vescovi di Albenga, i Del Carretto, la Repubblica di Genova. Ciò che continuava con pochi mutamenti era la routine della gente comune in un sistema economico nel quale il baratto rimaneva uno dei mezzi per dare ed avere beni e prestazioni. Il Signore si limitava a fornire protezione in caso di guerra e sostegno in periodo di carestia: il vassallo doveva offrire come contropartita il versamento regolare di quote sotto forma di servizi e gabelle, spesso vessatorie. Boccaccio dice del Signore “ciascuno e castella e vassalli aveva sotto di sé”, Machiavelli chiama il borgo “castello di cento case”.
La terminologia legata a questo tipo di abitazione-fortezza è piena di richiami obsoleti: ponte levatoio, postierla o porta minore, maschio o mastio o cassero, merlo guelfo e ghibellino, cammino di ronda, saettiera, archibusiera, bertesca, balestriera. Le segrete – luoghi di detenzione e tortura, solitamente relegate nelle torri o nei sotterranei – riecheggiano tuttora la pena dei ceppi, della gogna, della strappata di fune, del banco di stiramento, della vergine di ferro e della gabbia nella quale si rinchiudeva il condannato fino alla morte per inedia: un armamentario di strumenti sinistri che la coscienza dell’uomo moderno ha modificato senza avere tuttavia la dignità civile e morale di abbandonarli completamente. Sulle mura vegliano le scolte armate di picche, la taverna – ritrovo dei villani e spesso luogo di risse – serve vino pesante, le porte delle mura sono chiuse ma pronte ad aprirsi per accogliere la gente in caso di pericolo: insomma, il castello come estremo baluardo e via di fuga per tutti.
Autore: Giuliano.confalonieri@alice.it