La necropoli costituisce solo una parte di una vastissima area di sepoltura che occupa tutto il costone roccioso posto al termine dell’altopiano di Sarteano, e si sviluppa dalla zona della Madonna del Belriguardo con tombe già di epoca tardo-orientalizzante e arcaica fino ad oltre la zona delle Pianacce-Cristianello con una estensione in linea d’aria di quasi un chilometro.
Lo splendido panorama sulla Val di Chiana, che mostra la vicinanza con l’allora centro egemone di Chiusi e con l’odierna Città della Pieve e che si apre sulle vallate umbre che portano ad Orvieto, dimostrano quale posizione di controllo fosse stata scelta per le sepolture, ma anche sicuramente per l’abitato posto nelle vicinanze, di cui al momento non si conosce l’ubicazione.
L’area delle Pianacce presenta nel settore sud-ovest le sepolture della fase più antica, collocabile tra la seconda metà del VI e il V sec. a. C., con strutture medio-piccole, tutte scavate nel travertino, mentre nella zona centrale si trovano grandi ipogei monumentali, anche con enormi corridoi di accesso, ognuno con una pianta diversa dall’altra e con caratteristiche architettoniche diverse. Queste ultime appartengono ad una fase compresa tra la seconda metà del IV e l’inizio del II sec. a. C. e presentano materiali di grande pregio che denotano la ricchezza della committenza che le aveva fatte realizzare. Tra esse spicca la tomba decorata con pitture detta “Tomba della Quadriga Infernale” dalla scena più significativa che vi è rappresentata, che costituisce una delle scoperte più eclatanti dell’etruscologia degli ultimi decenni. Di straordinario interesse inoltre la struttura teatriforme semicircolare costruita in blocchi di travertino -messa in luce tra il 2007 e il 2009 nel settore nord dell’area – collegata con le tre tombe sottostanti e adibita alle cerimonie funebri, un unicum in Etruria. Si tratta di un monumentale podio – altare con diametro di 16 metri a cui si accedeva tramite una rampa e che doveva avere al di sopra del piano di calpestio una struttura lignea deperibile coperta da un tendaggio, come quelle che appaiono raffigurate sui cippi chiusini di pietra fetida, sotto alla quale veniva deposto il morto prima di seppellirlo. Intorno si svolgevano i rituali funebri, quali danze, gare atletiche, banchetti. La struttura doveva avere sia una decorazione in travertino, come dimostra la volta rinvenuta in prossimità della rampa, sia in pietra fetida come dimostra l’innumerevole quantità di frammenti anche figurati che sono stati rinvenuti intorno al muro.
Nell’ottobre 2003, durante le annuali campagne di scavo del Museo Civico Archeologico di Sarteano nella necropoli etrusca delle Pianacce, è venuta alla luce una tomba con uno straordinario ciclo pittorico in ottimo stato di conservazione, databile nella seconda metà del IV sec. a. C.. Si tratta di una delle più importanti scoperte archeologiche avvenute in Italia negli ultimi decenni.
La tomba monumentale e scavata nel travertino locale come tutte quelle del territorio di Sarteano, presenta un corridoio scoperto intagliato nel travertino di 19 metri di lunghezza con quattro nicchie e dopo la porta un lungo corridoio che dà accesso ad una camera a pianta quadrangolare di circa di m. 3,50 di lato. Sul lato sinistro la decorazione pittorica si sviluppa in quattro zone: sulla prima parte del corridoio prima della nicchia con la più significativa scena del demone che conduce una quadriga, sulla stessa parete, ma dopo la nicchia con due defunti distesi sulla kline in un banchetto ambientato nell’Aldilà, il tutto incorniciato tra un meandro superiore in rosso e nero e un fregio con delfini che si tuffano nelle onde correnti nella parte inferiore sopra uno zoccolo rosso; sulla parete sinistra della camera con un serpente a tre steste di grandi dimensioni ed infine sul frontone della parete di fondo, sempre a sinistra, con un ippocampo.
La prima scena, che è quella più complessa, costituisce un vero unicum iconografico nell’arte etrusca e rappresenta una figura vestita di rosso che conduce un carro condotto da due grifoni e due leoni. Una nuvola nera avvolge le fiere, giungendo davanti al volto del conducente del carro. Di fronte a tutta la scena, diretta verso l’esterno della tomba, così come la quadriga, un’altra figura presumibilmente demonica di cui si conservano i piedi e la parte inferiore di un’ala. La figura che conduce il carro è identificabile con Charun, equivalente del Caronte greco, anche se non ne ha i caratteri tipici che compaiono sulle sue raffigurazioni nelle pitture parietali tarquiniesi. Del tutto peculiare è anche la presenza della zanna che gli fuoriesce dal labbro inferiore, che è attestata in una rara redazione iconografica di Charun a Orvieto su lastre fittili.
Il carattere ultraterreno del cocchio è dimostrato dalla stessa natura degli animali che lo conducono: i leoni rimandano ad una iconografia della dea Cibele, nota in ambito greco e romano, mentre i grifoni, eccezionalmente nel nostro caso privi di ali, sono assimilabili ai “draghi alati” che trainano la biga di Persefone su due note anfore di produzione orvietana con rappresentazione del viaggio agli Inferi. Un altro elemento della scena che rimanda a ceramiche di area orvietana è la singolare resa dell’interno del corpo dei nostri animali. Dunque Charun compare nella nostra tomba in un ruolo del tutto originale di conducente di una quadriga con caratteri del tutto eccezionali, che ha già accompagnato il defunto nel mondo dell’Aldilà, rispettando quindi la sua canonica funzione di demone accompagnatore delle anime nel viaggio ultraterreno. E la nicchia che si apre alle sue spalle, incorniciata da una porta di tipo cosiddetto dorico, rappresenta proprio il limite del mondo ultraterreno.
A destra della nicchia si sviluppa la seconda scena che vede una coppia maschile distesa sulla kline del banchetto che in quest’epoca, a differenza del periodo tardo arcaico e classico in cui si raffigurava il banchetto reale dei parenti del defunto, è sempre ambientato nell’Ade e svolto dai defunti stessi. I due personaggi maschili semidistesi, secondo il consueto schema del banchetto di origine orientale, indossano mantelli che lasciano completamente scoperto il torace, e sono caratterizzati da una resa marcata della differenza di età resa dal colore della carnagione. Anche il gesto di saluto affettuoso tra i due rimane senza confronti nella pittura parietale etrusca. Può trattarsi sia del gesto tra due amanti che di quello tra un padre un figlio, come farebbe pensare il contatto con le tombe Golini di Orvieto dove le figure maschili su klinai sono indicate da iscrizioni familiari.
Questa figurazione pittorica è caratterizzata da una serie di linee preparatorie incise che non sono state seguite nel successivo sviluppo della linea di contorno e del colore, cioè i cosiddetti “pentimenti”. Un parallelo diretto è istituibile tra la raffigurazione del defunto più maturo, il proprietario della tomba deposto nel sarcofago sul fondo, e il ritratto di profilo di Vel?ur Velcha sulla parete destra della tomba degli Scudi di Tarquinia a dimostrazione di una circolazione di modelli tra le varie scuole pittoriche.
Accanto ai due banchettanti un servitore, vestito con una tunica trasparente e che tiene in mano un colino per filtrare il vino. Il volto giovanile con corti capelli chiari ricorda molto quelli dei servitori della tomba Golini I di Orvieto, in particolare del suonatore di doppio flauto.
Nella camera di fondo, che viene simbolicamente a rappresentare il recesso dell’Ade, a tutta parete su fondo bianco è raffigurato un enorme serpente a tre teste, munito di cresta e barba, con il corpo avvolto in un’unica grande spira. L’enorme mostro a tre teste, come consuetudine delle fiere infernali, è una chiara allusione all’ambito ctonio, ed è una presenza simbolica ricorrente nella ceramografia e nella pittura parietale della seconda metà del IV sec. a. C.. E sempre in ambito orvietano si trova il confronto più stringente per il mostro di Sarteano, seppur chiaramente in dimensione molto ridotta rispetto al nostro: nel serpente a due teste che lotta con il piccolo Eracle sul lato A dello stamnos del Pittore di Settecamini, attivo a Orvieto tra il 360 e il 330 a. C..
Sono quindi continui i rimandi tra la decorazione figurata del sepolcro sarteanese e Orvieto e in particolar modo con le tombe di Settecamini. Tuttavia animali simili sono molto frequenti sulle ceramiche degli ultimi decenni del IV sec. a. C. con scene di viaggi agli Inferi e nel repertorio figurativo dei sarcofagi ed inoltre rappresentazioni di serpenti con cresta e barba sono consuete sia in ambito greco che italiota.
Sul semitimpano della parete di fondo è raffigurato un grande ippocampo, simbolo, come i delfini del fregio del corridoio, del mondo marino come metafora di passaggio, ovvero del tuffo fra i flutti inteso come momento di transizione tra il mondo terreno e quello ultraterreno. L’ippocampo costituisce la più comune decorazione dei frontoni delle tombe tarquiniesi arcaiche, sia isolato sia associato a scene figurate, ed è poi attestato anche in alcune tombe della seconda metà del IV sec. a. C.. Al di sotto del timpano domina un grande sarcofago di alabastro grigio volterrano, ma decorato a Chiusi, con defunto recumbente sul coperchio e doppia kline a basso rilievo sulla cassa che è stato rinvenuto completamente distrutto a colpi di mazza e che ora è stato restaurato all’interno della tomba. Rappresenta il più grande e più antico esempio di sarcofago chiusino ed è anche l’unico rinvenuto con il corredo perché tutti gli altri provengono da scavi ottocenteschi.
Il corredo, recuperato in uno stato estremamente frammentario e di completo sconvolgimento, è stato ricostruito in tempi rapidissimi per essere esposto presso il Museo Civico Archeologico di Sarteano. Di esso fanno parte tre kylikes del cosiddetto Gruppo Clusium di produzione locale databili anch’esse -come le pitture- nei decenni tra il 340 e il 320 a. C., oltre a numerose ceramiche a vernice nera, ceramiche grigie, due grandi anfore, numerose vaschette di bruciaprofumi in terracotta decorate da uccellini e molti oggetti in bronzo.
Pertanto i materiali di corredo concordano perfettamente con la cronologia su base stilistica delle pitture e soprattutto con i numerosi confronti con i prodotti dei pittori e ceramisti orvietani che operarono nella seconda metà del IV sec. a. C. Palesemente furono loro a realizzare quest’opera in territorio chiusino che costituisce quindi l’antecedente dei prodotti ceramici. Inoltre fornisce una testimonianza archeologica di un fenomeno già ampiamente dimostrato dai rapporti epigrafici: quello di una forte integrazione politica tra i centri di Chiusi e Orvieto anche nel IV sec. a. C., oltre che nell’epoca di Porsenna. Ed appunto l’eccezionalità del ritrovamento sarteanese non consiste soltanto nella rivoluzionaria novità delle sue iconografie e in una documentazione straordinaria della rara pittura di IV secolo a. C. con temi profondamente connessi al mondo infero, al viaggio nell’al di là e alle simbologie della morte così diverse da quelle di epoca arcaica, ma fornisce anche un totale sconvolgimento di tutte le conoscenze storiche e archeologiche sul IV sec. a. C. in area chiusina.
Fino ad oggi la notizia riportata dalla fonti romane del quasi totale spopolamento delle campagne chiusine nel IV sec. a. C. e la scarsità di ritrovamenti di questo periodo intorno al polo di Chiusi avevano creato la falsa convinzione di una diserzione dell’agro in questa fase.
La tomba dipinta delle Pianacce non è infatti una isolata, seppur eclatante, dimostrazione dell’occupazione del territorio da parte di aristocrazie di livello urbano, ma si inserisce in una serie di rinvenimenti degli ultimi anni nel territorio di Sarteano che mostrano una continuità insediativa fino a pochi anni fa sconosciuta. Indubbiamente inoltre l’impressionante ritratto di demone della tomba di Sarteano, denominata “della Quadriga Infernale” proprio dalla sua scena più significativa, sarà da ora in poi una delle testimonianze più vivaci e originali dell’arte etrusca di IV secolo.
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