Una serie di colline boscose, punteggiate di alberi di grandi dimensioni e attraversate da un torrente con tanto di piccole isole al centro prima di gettarsi nel Tevere. Così appariva il quartiere romano di san Giovanni tremila anni fa, prima della fondazione di Roma, nell’area compresa fra Porta Metronia e via Casilina vecchia.
A restituire l’immagine della zona sono stati le indagini di archeologia preventiva compiute dalla soprintendenza per la realizzazione del metro C. È solo una delle scoperte rivelate dalla tecnologia elaborata dal Cnr e basata sulla georeferenziazione, che dà riproduzioni tridimensionali del terreno sulla base della sua morfologia.
Una metodologia confluita nel libro “Cantieristica archeologica e opere pubbliche. La linea C della Metropolitana di Roma” (Mondadori Electa, 65 euro), presentato oggi nella sede del Museo nazionale romano di Palazzo Massimo. Partendo dagli oltre 400 carotaggi compiuti fra le future stazioni di san Giovanni e Lodi nord, si è così scoperto come quel quadrante cittadino oggi completamente pianeggiante prima dell’arrivo dell’uomo era una grande vallata spesso acquitrinosa, con tanto di rapide, depressioni e piccole cascatelle. Di questo grande torrente, lo stesso che tuttora passa sotto il Colosseo, non si conosce neppure il nome.
Quel che è certo è che scorreva in una vegetazione fatta di canne e piena dei cosiddetti “alberi di Giuda”, al di sopra della quale svettavano boschi particolarmente fitti. Terreni talmente fertili che a partire dal I secolo avanti Cristo, in epoca tardo-repubblicana, vennero trasformati in un susseguirsi ininterrotto di appezzamenti agricoli di grandi proprietari.
“Nel cantiere della stazione san Giovanni, a 14 metri di profondità abbiamo perfino rinvenuto le radici ancora piantate al suolo di peschi e meli – afferma l’archeologa della soprintendenza Rossella Rea -. Ma abbiamo trovato anche opere di canalizzazione delle acque di età augustea, l’impronta di una sorta di mulino ad acqua e una gran quantità di laterizi col bollo di uno stesso produttore. Segno, molto probabilmente, dell’attività industriale di un’officina. In via Sannio, invece, abbiamo rinvenuto i resti di lastrine di marmo pregiato usato per rivestire pavimenti e pareti”.
Sul torrente di san Giovanni fu costruita, secoli dopo, parte delle Mura Aureliane. Circostanza che ne spiega anche l’attuale “fragilità” in più punti. L’area di san Giovanni rimase invece agricola fino alla caduta di Roma per poi essere abbandonata per secoli e sbancata negli anni Venti del Novecento, quando assunse la fisionomia attuale.
La scoperta dell’esistenza di un fitto bosco a san Giovanni va ad aggiungersi alle altre rivelate dai lavori della metro C: la necropoli paleolitica a Pantano, un tratto dell’antica via Labicana, una cava di pozzolana dell’età Flavia con mosaici e colonne al Pigneto. Decisiva si è rivelata l’introduzione della geomatica (georeferenziazione più informatica), che permette di eseguire rilievi in poche ore e di valutare, prima di iniziare i lavori, lo spessore medio degli interri e i volumi da rimuovere: fasi e modalità di scavo diventano così preventivati nel minimo dettaglio, dal numero di operai necessari al tipo di mezzi da impiegare nel cantiere. Senza contare le indicazioni utili alla progettazione delle stazione e dei pozzi di areazione.
“Il progetto esecutivo dello scavo archeologico è stato programmato con precisione nei tempi – spiega la soprintendente Anna Maria Moretti – tanto che è stato possibile terminare le ricerche addirittura con un mese in anticipo nel corpo 3 della stazione san Giovanni: erano previsti 172 giorni di scavo programmati ma con le nuove tecnologie ne sono bastati 140. Nella stazione Lodi nord, invece, sono durate 127 giorni, esattamente come da programma”.
Risultati “svizzeri” che dimostrano la possibilità di dare certezza alla fase esecutiva, senza subire rinvii in seconda battuta. Perché anche se le attività archeologiche possono comportare maggiori oneri progettuali, questi vengono compensati dai risparmi nella fase di esecuzione: un’accurata analisi preventiva riduce infatti i rischi di slittamento durante lo scavo a causa di rinvenimenti inaspettati.
“È la dimostrazione che l’archeologia non è nemica delle opere pubbliche”, rileva il presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, Andrea Carandini. Per il dg delle Antichità del Mibac, Luigi Malnati, quello della metro C, è invece “un modello di lavoro che va esteso anche altrove”.
Dopo la tratta T4 (San Giovanni Teano), la metodologia sarà estesa alla progettazione della tratta T2 (Ottaviano-Colosseo) e T3 (Colosseo-san Giovanni).
Fonte: Il Velino.it, 24/10/2011
A restituire l’immagine della zona sono stati le indagini di archeologia preventiva compiute dalla soprintendenza per la realizzazione del metro C. È solo una delle scoperte rivelate dalla tecnologia elaborata dal Cnr e basata sulla georeferenziazione, che dà riproduzioni tridimensionali del terreno sulla base della sua morfologia.
Una metodologia confluita nel libro “Cantieristica archeologica e opere pubbliche. La linea C della Metropolitana di Roma” (Mondadori Electa, 65 euro), presentato oggi nella sede del Museo nazionale romano di Palazzo Massimo. Partendo dagli oltre 400 carotaggi compiuti fra le future stazioni di san Giovanni e Lodi nord, si è così scoperto come quel quadrante cittadino oggi completamente pianeggiante prima dell’arrivo dell’uomo era una grande vallata spesso acquitrinosa, con tanto di rapide, depressioni e piccole cascatelle. Di questo grande torrente, lo stesso che tuttora passa sotto il Colosseo, non si conosce neppure il nome.
Quel che è certo è che scorreva in una vegetazione fatta di canne e piena dei cosiddetti “alberi di Giuda”, al di sopra della quale svettavano boschi particolarmente fitti. Terreni talmente fertili che a partire dal I secolo avanti Cristo, in epoca tardo-repubblicana, vennero trasformati in un susseguirsi ininterrotto di appezzamenti agricoli di grandi proprietari.
“Nel cantiere della stazione san Giovanni, a 14 metri di profondità abbiamo perfino rinvenuto le radici ancora piantate al suolo di peschi e meli – afferma l’archeologa della soprintendenza Rossella Rea -. Ma abbiamo trovato anche opere di canalizzazione delle acque di età augustea, l’impronta di una sorta di mulino ad acqua e una gran quantità di laterizi col bollo di uno stesso produttore. Segno, molto probabilmente, dell’attività industriale di un’officina. In via Sannio, invece, abbiamo rinvenuto i resti di lastrine di marmo pregiato usato per rivestire pavimenti e pareti”.
Sul torrente di san Giovanni fu costruita, secoli dopo, parte delle Mura Aureliane. Circostanza che ne spiega anche l’attuale “fragilità” in più punti. L’area di san Giovanni rimase invece agricola fino alla caduta di Roma per poi essere abbandonata per secoli e sbancata negli anni Venti del Novecento, quando assunse la fisionomia attuale.
La scoperta dell’esistenza di un fitto bosco a san Giovanni va ad aggiungersi alle altre rivelate dai lavori della metro C: la necropoli paleolitica a Pantano, un tratto dell’antica via Labicana, una cava di pozzolana dell’età Flavia con mosaici e colonne al Pigneto. Decisiva si è rivelata l’introduzione della geomatica (georeferenziazione più informatica), che permette di eseguire rilievi in poche ore e di valutare, prima di iniziare i lavori, lo spessore medio degli interri e i volumi da rimuovere: fasi e modalità di scavo diventano così preventivati nel minimo dettaglio, dal numero di operai necessari al tipo di mezzi da impiegare nel cantiere. Senza contare le indicazioni utili alla progettazione delle stazione e dei pozzi di areazione.
“Il progetto esecutivo dello scavo archeologico è stato programmato con precisione nei tempi – spiega la soprintendente Anna Maria Moretti – tanto che è stato possibile terminare le ricerche addirittura con un mese in anticipo nel corpo 3 della stazione san Giovanni: erano previsti 172 giorni di scavo programmati ma con le nuove tecnologie ne sono bastati 140. Nella stazione Lodi nord, invece, sono durate 127 giorni, esattamente come da programma”.
Risultati “svizzeri” che dimostrano la possibilità di dare certezza alla fase esecutiva, senza subire rinvii in seconda battuta. Perché anche se le attività archeologiche possono comportare maggiori oneri progettuali, questi vengono compensati dai risparmi nella fase di esecuzione: un’accurata analisi preventiva riduce infatti i rischi di slittamento durante lo scavo a causa di rinvenimenti inaspettati.
“È la dimostrazione che l’archeologia non è nemica delle opere pubbliche”, rileva il presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, Andrea Carandini. Per il dg delle Antichità del Mibac, Luigi Malnati, quello della metro C, è invece “un modello di lavoro che va esteso anche altrove”.
Dopo la tratta T4 (San Giovanni Teano), la metodologia sarà estesa alla progettazione della tratta T2 (Ottaviano-Colosseo) e T3 (Colosseo-san Giovanni).
Fonte: Il Velino.it, 24/10/2011