I sub nuotano dentro lo scafo, misurano il fasciame, toccano la chiglia. Davanti ai loro occhi c’e’ il miracolo di una nave commerciale romana del terzo secolo dopo Cristo affondata e rimasta quasi intatta a dispetto della latitudine niente affatto nordica.
Siamo a Marausa, a un passo da Trapani, e questo e’ il piu’ grande relitto dell’epoca mai tirato fuori nei nostri mari. Operazione titanica, che vede all’opera archeologi, subacquei, ingegneri, restauratori. Bagnati, emozionati, in movimento continuo. Tutti insieme, a tirare fuori pezzo a pezzo un gigante lungo piu’ di venti metri e largo nove, affondato 1.700 anni fa nei bassi fondali durante la manovra di ingresso nel fiume Birgi, che allora era una via navigabile per parecchi chilometri e adesso e’ soltanto il nome dell’aeroporto della citta’.
Un tesoro a portata di mano, tre metri di profondita’ e 150 dalla riva, e nonostante questo rimasto segreto per secoli perche’ coperto da un metro di argilla e di radici di posidonia, la pianta del mare. Un rivestimento naturale che l’ha tenuta in uno stato eccezionale di conservazione.
«E’ stata la costruzione di un molo abusivo qui vicino a determinare un brusco cambiamento di correnti che hanno eroso la prateria e mostrato il relitto. Senza quel cemento non avremmo la nave», scherza Sebastiano Tusa, il soprintendente ai Beni culturali di Trapani che da dodici anni – dalle prime segnalazioni fatte nell’agosto del 1999 da Antonio Di Bono e Dario D’Amico della sezione locale dell’Archeoclub – sognava di disseppellire quel tesoro e di portarlo alla luce. «Ormai preferiamo lasciare i relitti dove stanno – spiega – favorire itinerari di turismo sottomarini, ma questo e’ un caso eccezionale, sia per la mole e l’integrita’ della nave, sia perche’ e’ cosi’ vicina alla costa da farci temere per la sua sicurezza. Un’operazione da oltre 800 mila euro, fondi del Lotto.
Settecento pezzi, lunghi da 40 centimetri a qualche metro, che adesso saranno assemblati come un gigantesco puzzle, con la stessa testardaggine dei modellisti, ma su scala reale. Destinazione finale il baglio Tumbarello di Marsala, accanto alla sala espositiva che gia’ ospita una nave punica. E allora, eccoli i tecnici della societa’ specializzata «Atlantis» tirare fuori prima il fasciame interno, poi l’ossatura, quindi quello esterno. E ancora le anfore con le tracce di olive, noci e fichi portati dal Nordafrica verso il mercato siciliano. Poi i segni della vita di bordo, come pezzi di vasellame e di bicchieri utilizzati dall’equipaggio, una decina di marinai che arrivavano probabilmente dall’attuale Tunisia, perche’ da li’ veniva la ciurma di Roma. Infine, tracce del carico di contrabbando: i cosiddetti «tubuli da extradosso», condotte cave in terracotta impiegate nelle costruzioni per alleggerire le volte e gli archi, e che in Africa si compravano a un quarto del costo di rivendita a Roma.
«Era un commercio illecito ma tollerato – racconta Tusa – i tubuli venivano nascosti dappertutto, e cosi’ i marinai arrotondavano guadagni davvero magri». Stipendi di Stato, perche’ queste imbarcazioni commerciali erano dell’Annona, quindi pubbliche, affidate ai navicolari, gli amatori che pagavano i marinai. Ecco quante cose raccontano questi legni inzuppati, portati fuori come trofei.
I primi pezzi risalgono dal mare nelle mani dell’archeosub Francesco Tiboni e dell’operatore tecnico Francesco Scardino, entrambi della Soprintendenza del mare, sotto lo sguardo trepidante del direttore di cantiere, l’ingegnere Gaetano Lino. «E’ un corrente di stiva», esulta lui, termine che indica l’elemento cardine dell’ossatura. Chissa’ quale maestro d’ascia l’aveva costruita, con una tecnica «a guscio portante», esattamente al rovescio di quella attuale: prima si montava la chiglia, poi l’esterno, quindi l’ossatura, memoria forse dell’imbarcazione primordiale, il tronco scavato. Adesso tutto e’ in viaggio verso Salerno, al laboratorio «Legni e segni della memoria» che si occupera’ di togliere dal relitto l’acqua di cui e’ inzuppato e di restaurarlo con una tecnica innovativa che e’ stata brevettata proprio dai suoi esperti, con l’iniziale collaborazione dell’Universita’ de La Rochelle.
Difficile da credere adesso, ma questi legni ammalorati che grondano di mare torneranno a essere quella nave. Intatta e veleggiante, un attimo prima del naufragio, come in un salto sulla macchina del tempo.
Siamo a Marausa, a un passo da Trapani, e questo e’ il piu’ grande relitto dell’epoca mai tirato fuori nei nostri mari. Operazione titanica, che vede all’opera archeologi, subacquei, ingegneri, restauratori. Bagnati, emozionati, in movimento continuo. Tutti insieme, a tirare fuori pezzo a pezzo un gigante lungo piu’ di venti metri e largo nove, affondato 1.700 anni fa nei bassi fondali durante la manovra di ingresso nel fiume Birgi, che allora era una via navigabile per parecchi chilometri e adesso e’ soltanto il nome dell’aeroporto della citta’.
Un tesoro a portata di mano, tre metri di profondita’ e 150 dalla riva, e nonostante questo rimasto segreto per secoli perche’ coperto da un metro di argilla e di radici di posidonia, la pianta del mare. Un rivestimento naturale che l’ha tenuta in uno stato eccezionale di conservazione.
«E’ stata la costruzione di un molo abusivo qui vicino a determinare un brusco cambiamento di correnti che hanno eroso la prateria e mostrato il relitto. Senza quel cemento non avremmo la nave», scherza Sebastiano Tusa, il soprintendente ai Beni culturali di Trapani che da dodici anni – dalle prime segnalazioni fatte nell’agosto del 1999 da Antonio Di Bono e Dario D’Amico della sezione locale dell’Archeoclub – sognava di disseppellire quel tesoro e di portarlo alla luce. «Ormai preferiamo lasciare i relitti dove stanno – spiega – favorire itinerari di turismo sottomarini, ma questo e’ un caso eccezionale, sia per la mole e l’integrita’ della nave, sia perche’ e’ cosi’ vicina alla costa da farci temere per la sua sicurezza. Un’operazione da oltre 800 mila euro, fondi del Lotto.
Settecento pezzi, lunghi da 40 centimetri a qualche metro, che adesso saranno assemblati come un gigantesco puzzle, con la stessa testardaggine dei modellisti, ma su scala reale. Destinazione finale il baglio Tumbarello di Marsala, accanto alla sala espositiva che gia’ ospita una nave punica. E allora, eccoli i tecnici della societa’ specializzata «Atlantis» tirare fuori prima il fasciame interno, poi l’ossatura, quindi quello esterno. E ancora le anfore con le tracce di olive, noci e fichi portati dal Nordafrica verso il mercato siciliano. Poi i segni della vita di bordo, come pezzi di vasellame e di bicchieri utilizzati dall’equipaggio, una decina di marinai che arrivavano probabilmente dall’attuale Tunisia, perche’ da li’ veniva la ciurma di Roma. Infine, tracce del carico di contrabbando: i cosiddetti «tubuli da extradosso», condotte cave in terracotta impiegate nelle costruzioni per alleggerire le volte e gli archi, e che in Africa si compravano a un quarto del costo di rivendita a Roma.
«Era un commercio illecito ma tollerato – racconta Tusa – i tubuli venivano nascosti dappertutto, e cosi’ i marinai arrotondavano guadagni davvero magri». Stipendi di Stato, perche’ queste imbarcazioni commerciali erano dell’Annona, quindi pubbliche, affidate ai navicolari, gli amatori che pagavano i marinai. Ecco quante cose raccontano questi legni inzuppati, portati fuori come trofei.
I primi pezzi risalgono dal mare nelle mani dell’archeosub Francesco Tiboni e dell’operatore tecnico Francesco Scardino, entrambi della Soprintendenza del mare, sotto lo sguardo trepidante del direttore di cantiere, l’ingegnere Gaetano Lino. «E’ un corrente di stiva», esulta lui, termine che indica l’elemento cardine dell’ossatura. Chissa’ quale maestro d’ascia l’aveva costruita, con una tecnica «a guscio portante», esattamente al rovescio di quella attuale: prima si montava la chiglia, poi l’esterno, quindi l’ossatura, memoria forse dell’imbarcazione primordiale, il tronco scavato. Adesso tutto e’ in viaggio verso Salerno, al laboratorio «Legni e segni della memoria» che si occupera’ di togliere dal relitto l’acqua di cui e’ inzuppato e di restaurarlo con una tecnica innovativa che e’ stata brevettata proprio dai suoi esperti, con l’iniziale collaborazione dell’Universita’ de La Rochelle.
Difficile da credere adesso, ma questi legni ammalorati che grondano di mare torneranno a essere quella nave. Intatta e veleggiante, un attimo prima del naufragio, come in un salto sulla macchina del tempo.
Autore: Laura Anello
Fonte: La Stampa.it, 13/10/2011