Prometeo ed Eracle vengono raffigurati accanto alla creazione di Adamo, in una sorta di enciclopedia visiva che riassume i temi più diffusi negli anni sessanta del III secolo
Sono stati resi noti i risultati degli studi archeologici sull’ipogeo degli Aureli, sito nell’area di viale Manzoni a Roma. Pubblichiamo stralci di alcuni interventi tratti dalla conferenza stampa.
Ci sono dei monumenti che «parlano troppo» e che diventano dei grovigli inestricabili di idee, di pensieri, di vie interpretative, per cui gli archeologi e gli storici dell’arte devono affilare le loro armi per sciogliere i nodi più stretti delle teorie che hanno animato committenti e artifices quando è stato concepito il complesso monumentale o la sua decorazione.
È questo il caso dell’ipogeo degli Aureli in viale Manzoni, un monumento sepolcrale, scoperto durante l’allestimento di un garage della Sta, divenuto poi proprietà della Fiat s.p.a., nel settore sud-orientale di Roma, non lontano dalla basilica di Santa Croce in Gerusalemme.
Sono stati resi noti i risultati degli studi archeologici sull’ipogeo degli Aureli, sito nell’area di viale Manzoni a Roma. Pubblichiamo stralci di alcuni interventi tratti dalla conferenza stampa.
Ci sono dei monumenti che «parlano troppo» e che diventano dei grovigli inestricabili di idee, di pensieri, di vie interpretative, per cui gli archeologi e gli storici dell’arte devono affilare le loro armi per sciogliere i nodi più stretti delle teorie che hanno animato committenti e artifices quando è stato concepito il complesso monumentale o la sua decorazione.
È questo il caso dell’ipogeo degli Aureli in viale Manzoni, un monumento sepolcrale, scoperto durante l’allestimento di un garage della Sta, divenuto poi proprietà della Fiat s.p.a., nel settore sud-orientale di Roma, non lontano dalla basilica di Santa Croce in Gerusalemme.
La Soprintendenza del tempo eseguì degli scavi sistematici e l’ispettore Goffredo Bendinelli preparò una prima edizione critica del programma decorativo, poi aggiornata dal grande iconografo Joseph Wilpert e dall’archeologo Orazio Marucchi. Da quel momento, l’ipogeo divenne una vera e propria «palestra» per tutti gli studiosi della storia delle religioni della tarda antichità, che affidarono all’ipogeo, ora una committenza pagana, ora una committenza cristiana, ora una committenza gnostica.
Il programma decorativo, che interessa, infatti, le tre stanze funerarie propone una tematica complessa, difficilmente riconducibile a un unico filone iconografico, ma mostra quella ecletticità tipica del clima multireligioso, che anima l’atmosfera culturale, che dal tempo dei Severi, tra il II e il III secolo, giunge all’impero di Gallieno, ossia alla fine degli anni Sessanta dello stesso III secolo. Un tempo, questo, percorso da mille problemi di ordine politico, sociale, economico e militare, che trova «rifugio» nel pensiero filosofico e religioso, il quale accoglie nell’ideologia romana le correnti delle nuove credenze e delle forme di fede provenienti dall’Oriente.
Il culto per Mitra, il pensiero giudaico, la filosofia neoplatonica, l’orfismo, il cristianesimo, la gnosi vivono e convivono in una Roma multietnica e multireligiosa, creando anche forme di sincretismo e sovrapposizioni complesse di elaborazioni religiose. Ebbene, l’ipogeo degli Aureli esprime proprio questa complessità di un pensiero elaborato da una classe sociale elevata, ambiziosa, forse appartenente all’entourage dei liberti imperiali e, comunque, pronta a emulare le manifestazioni monumentali dei ranghi più alti e danarosi del tempo.
La tensione verso l’autorappresentazione suggerisce a questa famiglia, così in vista nella Roma del tempo, di decorare il proprio monumento funerario con i temi che, pur non dimenticando le consuetudini iconografiche della cultura ellenistica e della tradizione romana, aprono le porte a un nuovo immaginario, sospeso tra vita quotidiana e un mondo beato, tranquillo, quieto, proiettato nell’aldilà.
Questo felice locus amoenus, di virgiliana memoria, si esprime con molti e diversi espedienti iconografici, che si dislocano nelle pareti dei tre ambienti funerari. Due grandi temi costellano gli affreschi dei tre cubicoli: da una parte, la grande materia filosofica, che propone decine di intellettuali disposti in teorie e muniti di virgae e rotoli della sapienza, dall’altra, l’argomento bucolico, con la rappresentazione di pastori criofori e di un curioso ibrido iconografico, ossia una figura di un pastore-intellettuale, che sembra alludere alla congiunzione dei due temi di base e che vuole rappresentare uno degli Aureli deposti nell’ipogeo.
Nell’iscrizione musiva dedicata da un Aurelius Felicissimus si ricorda la sepoltura dei tre fratelli Aurelius Onesimus, Aurelius Papirius e Aurelia Prima. Ebbene, questi tre defunti vengono rappresentati in un lungo ciclo affrescato, ora come il saggio pastore, di cui si è parlato; ora come un cavaliere che entra in una favolosa città, che si propone come una sorta di oltremondo urbano; ora come un retore al centro di un foro; ora come una commensale di un banchetto celeste. Il ciclo si inserisce in un grande quadro omerico, dove, secondo i primi editori, era rappresentato l’episodio di Ulisse che torna a Itaca e incontra Penelope al telaio tra i Proci.
Il programma decorativo, che interessa, infatti, le tre stanze funerarie propone una tematica complessa, difficilmente riconducibile a un unico filone iconografico, ma mostra quella ecletticità tipica del clima multireligioso, che anima l’atmosfera culturale, che dal tempo dei Severi, tra il II e il III secolo, giunge all’impero di Gallieno, ossia alla fine degli anni Sessanta dello stesso III secolo. Un tempo, questo, percorso da mille problemi di ordine politico, sociale, economico e militare, che trova «rifugio» nel pensiero filosofico e religioso, il quale accoglie nell’ideologia romana le correnti delle nuove credenze e delle forme di fede provenienti dall’Oriente.
Il culto per Mitra, il pensiero giudaico, la filosofia neoplatonica, l’orfismo, il cristianesimo, la gnosi vivono e convivono in una Roma multietnica e multireligiosa, creando anche forme di sincretismo e sovrapposizioni complesse di elaborazioni religiose. Ebbene, l’ipogeo degli Aureli esprime proprio questa complessità di un pensiero elaborato da una classe sociale elevata, ambiziosa, forse appartenente all’entourage dei liberti imperiali e, comunque, pronta a emulare le manifestazioni monumentali dei ranghi più alti e danarosi del tempo.
La tensione verso l’autorappresentazione suggerisce a questa famiglia, così in vista nella Roma del tempo, di decorare il proprio monumento funerario con i temi che, pur non dimenticando le consuetudini iconografiche della cultura ellenistica e della tradizione romana, aprono le porte a un nuovo immaginario, sospeso tra vita quotidiana e un mondo beato, tranquillo, quieto, proiettato nell’aldilà.
Questo felice locus amoenus, di virgiliana memoria, si esprime con molti e diversi espedienti iconografici, che si dislocano nelle pareti dei tre ambienti funerari. Due grandi temi costellano gli affreschi dei tre cubicoli: da una parte, la grande materia filosofica, che propone decine di intellettuali disposti in teorie e muniti di virgae e rotoli della sapienza, dall’altra, l’argomento bucolico, con la rappresentazione di pastori criofori e di un curioso ibrido iconografico, ossia una figura di un pastore-intellettuale, che sembra alludere alla congiunzione dei due temi di base e che vuole rappresentare uno degli Aureli deposti nell’ipogeo.
Nell’iscrizione musiva dedicata da un Aurelius Felicissimus si ricorda la sepoltura dei tre fratelli Aurelius Onesimus, Aurelius Papirius e Aurelia Prima. Ebbene, questi tre defunti vengono rappresentati in un lungo ciclo affrescato, ora come il saggio pastore, di cui si è parlato; ora come un cavaliere che entra in una favolosa città, che si propone come una sorta di oltremondo urbano; ora come un retore al centro di un foro; ora come una commensale di un banchetto celeste. Il ciclo si inserisce in un grande quadro omerico, dove, secondo i primi editori, era rappresentato l’episodio di Ulisse che torna a Itaca e incontra Penelope al telaio tra i Proci.
Il recentissimo restauro effettuato con il rivoluzionario uso del laser — che lo scorso anno recuperò il cubicolo degli apostoli a S. Tecla — ha permesso di leggere meglio questa singolare megalografia.
Nella parte superiore, laddove gli iconografi del passato riconoscevano il palazzo e le greggi di Laerte, è stata scoperta ancora Aurelia Prima che, in segno di lutto, si scioglie i capelli per compiangere i due fratelli morti, sistemati sul letto funebre all’interno di un recinto funerario.
Nel settore inferiore — sulla scia di qualche interpretazione del passato — si assiste al momento in cui Ulisse ottiene dalla maga Circe che i compagni, trasformati in porci, tornino a essere uomini. Il racconto, che si dispiega nel X canto dell’Odissea, ben si inserisce nella tematica funeraria del tempo, se si tiene conto che fu proprio Circe a indicare la via di un viaggio nell’Ade al curioso Odisseo. Le nuove scene individuate si calano perfettamente nel sistema multireligioso a cui fa capo il sincretismo elaborato dagli Aureli, che comporta anche due enigmatiche scene dove si può riconoscere sia Prometeo che crea l’uomo ed Eracle nel giardino delle Esperidi, sia la creazione di Adamo e la cacciata dall’Eden. Queste incertezze e queste compresenze ci parlano di un’atmosfera ricca di tensioni ideologiche, che mirano, comunque, a creare una condizione oltremondana, sospesa nel cosmo, in equilibrio tra una sede terrena e una ultraterrena, che prepara l’idea di un altro mondo pronto a rappresentare il paradiso dei cristiani, riservato, in questo caso, a un gruppo privato, a una famiglia d’alto rango.
Di lì a poco o negli stessi anni, proprio nella prima metà del III secolo, nascono le catacombe comunitarie destinate alla sepoltura di tutti i fratelli che hanno aderito alla nuova fede.
L’ipogeo degli Aureli, in questo contesto, rappresenta un antefatto singolare, fortemente autorappresentativo, di una gens che, senza abbracciare il pensiero cristiano, lo contempla nell’orizzonte multireligioso del tempo.
Autore: Fabrizio Bisconti
Fonte: L’Osservatore Romano, 10 giugno 2011