Una cittadella fortificata con mura ciclopiche, costruita in almeno tre fasi successive fra il 4° millennio a.C. e la fine dell’età del bronzo (1500 a.C. circa), è stata scavata dall’archeologo italiano Gabriele Rossi Osmida in un’oasi nel deserto del Karakum, nell’odierno Turkmenistan.
La campagna di scavo appena conclusa ha rivelato un grande incendio che devastò quella cittadella nella seconda fase della sua fioritura, e che Rossi Osmida non esclude possa attribuirsi ad un evento bellico: è di quel periodo (la fine del 3° millennio a.C.) l’espansione aggressiva in quella regione dell’impero akkadico, una potenza semita che dalla Mesopotamia puntava ai preziosi giacimenti di lapislazzuli della Battriana (l’odierno Afghanistan).
“A 600 metri di distanza dalle mura della cittadella – ha rivelato Rossi Osmida in un’intervista concessa a Scienzaonline.com poco dopo il suo rientro dalla campagna di scavo – sorgono infatti i ruderi di una fortezza militare akkadica, databile alla stessa epoca dell’incendio”.
La campagna primaverile della missione archeologica italo-turkmena nell’oasi, che oggi si chiama Adji Kui (“acqua cattiva” in lingua turcomanna), è stata promossa e organizzata dal Centro Studi Ricerche Ligabue con il contributo del Ministero Affari Esteri italiano, e diretta da Gabriele Rossi Osmida. Lo scavo nell’area esplorata durante questa missione (ca 1300 m2 ) nell’antica capitale dell’oasi, è stato afflitto da un clima anomalo con sbalzi di temperatura fra i 3°C e i 45°C e frequenti tempeste di sabbia, ma alla fine ha portato alla luce le mura ciclopiche della cittadella, in mattoni crudi che poggiavano su alcune strutture più antiche, forse accampamenti. Si è così appurato che la capitale fortificata dell’oasi, la cui estensione si aggirerebbe sui 15 ettari, fu costruita almeno in 3 fasi successive, a partire dalla tarda epoca calcolitica (IV millennio a.C.).
L’incendio della fine del III millennio a.C. provocò crolli consistenti, ma ha comunque permesso oggi agli archeologi di rintracciare e recuperare le coperture dei tetti carbonizzate (travi e cannucce) e un consistente deposito di cereali misti altri semi, che sono attualmente allo studio degli esperti paleobotanici.
Numerosi, nella cittadella, i caminetti per il riscaldamento e per la cottura del cibo, alcuni dei quali di notevoli dimensioni, elegantemente rifiniti con colonnette laterali e intonaco di alabastro e dotati di canne fumarie, all’interno delle mura.
Le ricerche proseguite anche nell’adiacente necropoli hanno fruttato, tra l’altro, l’intrigante scoperta una eccezionale sepoltura dotata di un ricco corredo funebre, dedicata ad una dama di alto lignaggio di circa 40 anni, che era stata assassinata con un colpo d’ascia infertole nel centro della fronte.Con l’aiuto dell’ antropo-paleopatologo Emiliano Nisi, messo a disposizione dalla Regione Veneto-ULSS n.13, è stato possibile ricostruire alcuni dettagli di questo misterioso omicidio consumato 4000 anni orsono: il corpo della donna, che sicuramente fu seppellito con tutti gli onori non oltre le 48 ore dal decesso perché era irrigidito nel rigor mortis, è rimasto in tutti questi millenni nella medesima posizione in cui la morte l’aveva immobilizzato: inginocchiata, con un braccio a coprire gli occhi. Ma quella signora vide sicuramente in faccia il suo assassino, poiché la ferita è nettamente centrale.
A rendere più misterioso il “giallo” sono i segni del potere presenti nel corredo funebre della signora uccisa: c’è anche il suo sigillo in bronzo, indizio certo del potere amministrativo che veniva affidato alle donne di quell’antica cultura di mercanti carovanieri del deserto. E’ una cultura che Rossi Osmida sospetta di avere mantenuto alcuni elementi matriarcali: un indizio, come spiega l’archeologo italiano nell’intervista concessa a Scienzaonline.com, è il fatto che sono donne il 70 per cento delle persone seppellite nelle tombe della necropoli della cittadella: “Con ogni verosimiglianza – commenta Rossi Osmida – gli uomini morivano per la maggior parte lontano dall’oasi, durante i viaggi commerciali sulle vie del deserto e impegnati nelle missioni carovaniere”. Pertanto, la continuità del potere amministrativo doveva restare affidata alle donne, che rimanevano nella capitale: è nelle loro tombe che sono infatti presenti i sigilli in bronzo che servivano a marchiare le mercanzie.
A dispetto del nome che gli attuali abitatori turcomanni gli hanno dato (“acqua cattiva”), anticamente il sito dell’oasi di Adji Kui doveva essere ricchissimo di ottima acqua, come suggerisce la presenza di pozzi e cisterne e di canalizzazioni protette con coperture di mattoni. Secondo Rossi Osmida, è verosimile che pozzi e cisterne attingessero a qualche ramo sommerso del delta endoreico del fiume Murghab. Ancra in epoca storica è testimoniato l’utilizzo dell’oasi di Adji Kui come tappa di sosta lungo un ramo della Via della Seta. L’abbandono totale del sito e la sua definitiva desertificazione, secondo l’archeologo italiano, risale con ogni probabilità al periodo delle scorrerie di Gengis Khan, che infierì a più riprese sulla regione. E l’acqua progressivamente si guastsò : il salnitro impregna tutta l’oasi, nel pieno del deserto del Karakum (parola che in lingua turcomanna significa “sabbie nere”).
Fonte: Scienza on line – www.scienzaonline.com 22/05/2008
Autore: Guido Scialpi
Cronologia: Arch. Orientale