Monte Sannace è un sito archeologico presso Gioia del Colle (Bari), dove da decenni riemerge pezzo dopo pezzo un’antica città peucezia, con l’acropoli, le strutture urbane, le ampie mura di cinta, l’abitato civile nella pianura e l’architettura sacra e amministrativa sul cocuzzolo della collina. Ma dove, nel contempo, si va preservando un “parco ambientale”, con un percorso naturalistico tra la flora mediterranea verde di fragni (la “quercus troiana”, sopravvissuta sulle nostre Murge), di roverelle, di lecci, ma anche di corbezzoli, mirto, viburni…Il connubio viene ora sottolineato dal recente volume Monte Sannace. Città dei Peuceti, a cura di Angela Ciancio, direttrice del parco e del Museo archeologico nazionale di Gioia (Progedit ed., pp. VIII-143). Il libro intende divulgare la gran massa di scritti scientifici editi finora sull’insediamento archeologico, aggiornandoli con le più recenti acquisizioni. E per fare ciò si avvale del contributo di una serie di giovani specialisti, che in brevi e essenziali capitoli, presentano tutti gli aspetti correlati al sito, da quelli geologici a quelli abitativi, dalle emergenze numismatiche alle importazioni ceramiche dalla Grecia antica, dalle tombe finora rinvenute (più di duecento) agli affreschi parietali che ornano alcune di esse. Senza dimenticare il percorso naturalistico.
Molto si è favoleggiato sul nome di questa città perduta, dagli anni ’60, da quando cioè Bianca Maria Scarfì ha cominciato a pubblicare i risultati delle indagini di scavo. Monte Sannace per molti è ancora “la città senza nome”. Ma ormai può essere accettata – benché non ci siano prove evidenti – l’ipotesi avanzata dal Mayer, che l’identificò con la “Thuriae” apula citata da Livio, “città presa d’assalto – scrive Angela Ciancio – da Cleonimo di Sparta, il condottiero chiamato dai Tarantini, tra il 303 e il 302 a. C. per contrastare i Lucani alleati di Roma”. Ed è probabile, soggiunge l’archeologa, che il toponimo si sia “conservato nella moderna cittadina di Turi, situata a pochi chilometri”.
L’abitato finora emerso parla di una città che visse un’altalenante storia dal IX secolo a. C. al I d. C.. La popolazione viveva di agricoltura e pastorizia e di una produzione tessile e ceramica non limitata al consumo locale. I ceti aristocratici di Monte Sannace nel VI secolo mostrano di controllare il territorio e le sue risorse (potrebbe anche darsi che fosse qui la sede di quel “re dei Peucezi” più volte evocato dagli storici antichi); ed esibiscono nei loro corredi funebri, nonché negli insediamenti abitativi, una “adesione al modello ideologico greco”. Le case e i reperti fittili ci aiutano a ricostruire i principali aspetti della vita quotidiana degli abitanti, che si mutuava all’ellenismo. E una “matrice greca” svela anche la porta delle mura, che si snodavano, in ben quattro cinte, per circa 12 km.
Il volume su Monte Sannace non tralascia di presentare schede complete, ma chiare, su ogni aspetto. La ceramica peucezia prodotta in loco è riconoscibile per gli emblemi decorativi della svastica prima, del gallinaccio dopo; e a volte, su anfore monocrome, appaiono figure antropomorfe a spirali triangolari. Nelle tombe signorili dell’acropoli appaiono in anteprima affreschi con motivi a bucrani (teschi di buoi) e tendaggi. Le monete testimoniano traffici con altre città peucezie come Ceglie e Bari, con le greche Taranto, Eraclea e Napoli. Ma la mancanza di pezzi coniati nel periodo imperiale rafforza l’ipotesi del graduale abbandono del sito a partire dal II sec. d. C.
Un gruzzolo di queste monete torna da oggi alla base (presentate da Giuseppe Libero Mangieri). E il tesoretto riemerso sull’acropoli negli anni ’30 e databile all’arrivo in Puglia di Pirro re d’Epiro in aiuto di Taranto. Quell’inizio III secolo fu un periodo terribile per la Peucezia; ed evidentemente il proprietario di questi soldi, costretto alla fuga, preferì seppellirli in luogo sicuro, con l’idea di recuperarli, una volta scampato il pericolo. Ma non riuscì.
Naturalmente ben altre novità ci riserverà il suolo di Monte Sannace, pur depredato nei secoli scorsi. Ne è prova la piccola, ma gustosa mostra su “Abitare in Peucezia”, che il castello-museo ospita nella Torre del forno, dove in alcune teche vengono esibiti i reperti degli scavi condotti dalla Scuola di specializzazione in Archeologia dell’Università di Bari. Tra gli oggetti esposti – con la cura scientifica di Raffaella Cassano – suscita una certa tenerezza il corredo funebre di bambino, ritrovato sull’acropoli: il piccolino volle portare con sé, nel buio dell’aldilà, i suoi “astragali”, cioè gli ossicini con i quali giocava in vita; e i suoi genitori gli posero accanto, per bere le acque del Lete, il suo bicchierino preferito, una coppetta in vernice nera raffigurante un volto (occhi bocca, orecchie…) che sembra fatto con la plastilina. In un’altra teca, elementi architettonici (antefisse, grondaie figurate…) ci inducono a immaginare una cittadina i cui abitanti tenevano molto al decoro urbano. Dalle facce delle “gorgoni” spuntano le linguacce apotropaiche, e grotteschi nasini appuntiti.
Ma la sorpresa maggiore è per ora celata nel laboratorio di restauro (nell’interno del castello): qui sta ricomponendosi un cratere – un grande vaso per mescolare il vino – trovato di recente sull’acropoli, all’esterno di un sepolcro del VI secolo, già depredato. Il vaso corinzio dai colori ancora smaglianti, presenta sulle anse sirene-uccello dalle folte chiome; e altre due sirene dividono racconto scenico che si sviluppa sulla pancia: da una parte un coro di diciotto fanciulle divise a gruppi di tre (avvolte in un unico mantello) di fronte a un capo-coro armato. Dall’altra, il combattimento tra due guerrieri assistiti da altrettante divinità femminili. Uno dei guerrieri soccombe, trafitto dalla lancia nemica: un copioso fiotto di sangue scorre via dal suo petto, e con esso la vita. Il cratere corinzio, che si potrebbe attribuire al «Pittore delle tre fanciulle», pare sia una eccezionalità per la Puglia. Se ne sentirà parlare. Giacomo Annibaldis
Fonte: Redazione
Autore: redazione (GDM in edicola)
Cronologia: Arch. Italica